di Adriano Marinensi – Si ricorre spesso alla memoria scritta per non dimenticare l’olocausto degli ebrei nei campi di sterminio nazista, durante il 2° conflitto mondiale. E’ e deve essere un richiamo doveroso per un crimine senza precedenti, che non trova nessuna esimente neppure in periodi di guerra. Le vittime erano considerate, da quei portatori di infamia, appartenenti a popoli inferiori e nemici, anche se inermi. Alcuni dei sodali di Hitler hanno pagato le loro colpe con la pena capitale.
In altri tempi, anche recenti, altri massacri ci sono stati e per essi gli autori hanno ricevuto soltanto condanne dalla storia. Con l’aggravante, se così si può dire, di aver ordinato gli atti criminosi a danno di propri connazionali, quasi sempre eliminati per motivi politici e teorie aberranti. In Unione Sovietica Giuseppe Stalin, in Cambogia Saloth Sar, detto Pol Pot. Nel caso del despota russo, la sua morte naturale (1953) scatenò addirittura sentite manifestazioni di cordoglio. In Italia comparvero manifesti listati a lutto e diffuse “condoglianze” che annunciavano: “Una grave e irreparabile sciagura ci ha colpiti tutti. Stalin è morto, ma la Sua opera, il Suo esempio vivono immortali. Gloria eterna a Giuseppe Stalin!”
All’inizio del 1956, c’è stata, a Mosca, una brusca accelerazione nella parabola discendente del Partito comunista sovietico ed europeo. Nella sala bianca del Cremlino, dal 14 al 25 febbraio, si celebra il XX Congresso del PCUS. Il Segretario generale Nikita Kruscev parla per 5 ore e spiega “le nuove strategie del comunismo”, ai circa 2000 presenti. L’Italia rossa è rappresentata da Mauro Scoccimarro e Palmiro Togliatti. Tutto si svolge nella assoluta normalità, senza alcuna premonizione di ciò che sta per accadere. Ma, come dicevano i latini antichi, “in cauda venenum”. Il giorno 25, torna al microfono Kruscev per leggere – a porte chiuse – un “rapporto sul culto della personalità e le sue conseguenze”. Le conseguenze sono gli innumerevoli delitti compiuti dall’idolo infranto. Insomma, un j’accuse pesante, contro Giuseppe Stalin, che rende noti avvenimenti cruenti dei quali è stato autore. Rivelazioni dai toni drammatici che dovevano rimanere segrete. Perché – così giustificò, in Italia, la sua omertà Togliatti –“le masse comuniste non erano preparate ad accettare la verità sui crimini di Stalin”.
L’eroe nazionale sovietico della 2^ Guerra mondiale, che aveva salvato il suo Paese dalle orde naziste, era stato dissacrato, in nome della verità storica. Per di più, qualche mese dopo, ai primi di giugno, il testo integrale del “rapporto Kruscev al XX Congresso”, apparve, in versione integrale, su un quotidiano americano. E i fatti denunciati presero, a livello mondiale, il nome di “grandi purghe”. Si seppe che Stalin aveva eliminato, senza alcuno scrupolo, gerarchi del partito, avversari politici, ufficiali di vertice dell’Armata Rossa, intellettuali; condannati a morte o confinati in Siberia tanti compagni scomodi, appena, appena pericolosi per la sua potestà assoluta. Un esempio lo fece Kruscev nel suo rapporto: “E’ stato accertato – disse – che dei 139 membri del Comitato Centrale del Partito, ben 98 sono stati arrestati e fucilati”. Alla fine il conto delle vittime, di quello scempio durato molti anni, venne calcolato in circa 800.000. Quel 1956 fu un anno terribile. Ci fu l’insurrezione di stile antisovietico, in Ungheria, repressa dai carri armati di Mosca. E la grande crisi internazionale a seguito della nazionalizzazione, da parte dell’Egitto, del Canale di Suez. Non per caso, si trattò di un anno bisestile e quindi “anno bisesto, anno molesto”.
Ed eccoci a Pol Pot (classe 1925), fondatore del Partito comunista in Cambogia e capo supremo dei guerriglieri Khmer rossi. A guardarlo nelle foto giovanili, somiglia ad un assiduo frequentatore delle panchine assolate in primavera, invece era un mostro. Nel 1975, è nominato Primo Ministro di Cambogia e da inizio ad una azione violenta, ispirata ad un disegno politico astruso: impone un esodo biblico dalle città verso le campagne ed a grandi masse di cittadini i lavori agricoli forzati.
L’obiettivo dichiarato, rifondare una nuova società comunista e contadina. Vengono innanzitutto eliminati, con il sopruso, tutti i segni della civiltà occidentale. Al bando le automobili, gli elettrodomestici, gli strumenti didattici, compresi i libri e le scuole. L’unica istruzione consentita è quella imposta nei “campi di rieducazione”, dove persero la vita, per le condizioni inumane, milioni di cambogiani. La proprietà privata posta fuori legge; nessuna manifestazione di culto consentita. Gli analisti concordano nel considerare la dittatura di Pol Pot una delle più spietate della storia.
La Cambogia viene chiusa in una morsa di ferro. Qualsiasi tentativo di ribellione o di fuga è punito con la morte. Proibite persino le manifestazioni d’affetto: niente baci, niente abbracci e guai a chi mostra lacrime di pianto. Di rigore, in ogni occasione, l’uniforme consistente in una casacca nera a strisce gialle, abbottonata al collo. I suicidi diventano per molti la via d’uscita da una condizione mortificante. Ai “nemici della rivoluzione”, toccano punizioni esemplari. Per questo pazzesco disegno, Pol Pot si può definire l’esaltato regista di un colossal dell’orrore.
Negli anni dal 1975 al 1979, il regime dei Khmer rossi (i “grandi fratelli”, ma erano una macchina di morte) ha lasciato un immenso cimitero, con tante, tantissime croci di persone angariate, violentate nel corpo e nell’anima, in nome di una ideologia, quella comunista, resa perversa dalla follia di un uomo e dalla brutalità dei suoi seguaci. Il collega Antonio Scuderi, nell’articolo di commento ad una intervista rilasciata dal criminale cambogiano ad un giornale USA, ha scritto: “Quanto pesano, sulla coscienza di un uomo due milioni di morti? (è il conto addebitatogli dalle indagini internazionali, n.d.a.). Niente, se la coscienza è quella di Pol Pot”. E aggiunge più avanti: “L’ex dittatore non si mostra pentito, non avverte alcun rimorso per il genocidio ordinato”. Il suo ultimo atto fu l’ordine di esecuzione dell’ ex Ministro della Difesa e di tutti i 14 membri della famiglia, bambini compresi.
Poi iniziano i contrasti con il Vietnam ed ha principio la caduta, accelerata dalle defezioni e dai disordini tra i capi dei Khmer rossi. Alla fine del 1978, l’esercito vietnamita invade la Cambogia e Pol Pot è costretto a fuggire nella foresta. Muore nel 1998, pare di infarto quando viene a sapere che i suoi lo cercano per consegnarlo ad un Tribunale internazionale. Nessuno ha pianto per la scomparsa dell’uomo che aveva fatto dell’odio implacabile quasi una fede e cacciato il suo Paese dentro un tunnel tragico di inaudite sofferenze.