Di Adriano Marinensi – Fosse stato il 16 marzo di uno dei cosiddetti anni di piombo, con le B.R. a spadroneggiare, i quotidiani, di primo acchito, avrebbero titolato: “Assassinato, a Roma, nell’aula Senato, il Divo Giulio”.
Siccome il delitto è avvenuto 2060 anni orsono, il Divo Giulio non poteva essere Andreotti, ma Caio Giulio Cesare, di anni 56, professione – come dice l’enciclopedia – Generale, Console, Triunviro, Pontefice massimo, Dittatore. Fu anche letterato di buona penna, ottimo storico, illuminato legislatore. Come condottiero, una furia scatenata, quasi sempre vincitore. Diventato capo supremo dell’esercito e governatore della vita civile, i romani si ritrovarono un uomo solo al comando. E più d’uno, nelle alte sfere, non la prese affatto bene.
Quando iniziò ad atteggiarsi a despota, gli estimatori delle libertà repubblicane da lui demolite, passarono dai mugugni alla organizzazione della congiura andata a buon fine proprio il 15 marzo del 44 a. C. Fors’anche per quella fine violenta, la figura di Cesare ha ispirato narratori illustri : Shakespeare, Voltaire, Goethe, Show, Hendel. Fu comunque la sua una grande avventura guerriera. Portò, in mezza Europa, la civiltà latina, offerta ai barbari sulla punta delle spade, in cambio di sangue, tanto sangue, spesso innocente.
A Roma, in illo tempore – così si diceva nella lingua di Cesare – i rapporti tra le varie fazioni non erano affatto cordiali. Non di rado le diatribe trovavano soluzione a mano armata. Nel quadro politico spiccavano la sinistra dei “popolari” e la destra degli “ottimati” che tutelava gli interessi degli oligarchi. Il popolo, come d’uso, osannava il “Cesare” di turno, cioè, nella fattispecie Caio Giulio il quale si diceva di origine divina, in quanto ultimo discendente della filiera Venere genitrice – Enea – Julo – Gens Julia – Cesare. appunto. Andavano di moda i trionfi decretati dai romani agli eroi che più nemici avevano sulla coscienza, più “archi” ricevevano. Al Divo Giulio non bastarono gli archi di trionfo e si fece costruire un Foro monumentale a suo nome, dominato dal tempio a Venere genitrice, un Foro da fare quasi invidia agli dei.
La notte prima delle Idi di marzo, il sonno della moglie Calpurnia era stato agitato da brutti sogni. Pure l’oroscopo, per i nati nel Cancro (Cesare – 13 luglio del 100 a. C.) non prometteva niente di buono. Una sorta di “dai nemici mi guardi Iddio, dagli amici mi guardo io”. Invece Cesare, proprio dagli amici non riuscì a difendersi. Tutto consigliava di restare a casa, ma Cesare non poteva esimersi dal recarsi al Senato ch’era in attesa di lui. Peraltro, i Senatori non stavano ben disposti nei suoi riguardi per via dell’offesa ricevuta quando, andatigli a rendere onoranze, lui – coram populo – manco in piedi s’era alzato. Ancora più grossa l’aveva fatta varcando, alla testa dei legionari, il Rubicone.
Infatti, nel 50 a.C., Cesare è a Ravenna, la città più vicina al fiume che segna il confine tra la Gallia cisalpina e il territorio romano. Chi lo passa in armi, dall’esterno, diventa nemico della Repubblica. Il Rubicone è uno dei tanti simboli dell’Urbe antica che spesso si perdono nel mito e deformano la storia. Inizia una lunga trattativa con la maggioranza dei Senatori vicini a Pompeo, i quali vogliono ridurre la accresciuta potenza militare di Cesare, conquistata nella sanguinosa guerra contro i Galli. Fallita ogni disputa pacifica, nella notte tra il 9 e il 10 gennaio del 49 a. C., Cesare guada il fiume. Sa di commettere un gesto grave contro Roma. Ma, ormai – dice – “alea iacta est”. Forse è li che muore la Repubblica e nasce il primo Imperatore.
Siamo arrivati al 44 a. C., il 15 di marzo e l’ormai autocrate esce di casa in tunica bianca di bucato, a piedi, tanto il luogo di riunione del Senato non sta lontano. Traversa, come di consueto, il popolo clamante e questo gli restituisce un po’ di buonumore. Durante il tragitto, ecco farsi avanti l’indovino che gli aveva predetto sciagure per quel giorno. Gli dice Cesare, con tono beffardo: “Ebbene, le idi di marzo sono arrivate !” E l’aruspice: “Si, sono arrivate, ma non ancora trascorse”. Forse, più che indovino era persona informata dei fatti che, di li a poco, sarebbero accaduti. Un tale Artemidoro, modesto filosofo greco della cerchia di Bruto, gli consegna un biglietto con l’avvertimento che un’aria infida tira per lui. Ma, Cesare non ha tempo di leggere il messaggio ed entra in Senato, confidando che i Padri nobili gli avrebbero riservato la solita doverosa e calorosa accoglienza. Invece, lo accolgono i congiurati con 23 coltellate, lasciandolo morto nel sangue.
Cominciò Cimbro con una supplica respinta, quindi Casca lo colpì alla gola e di seguito gli altri. Ci fu pure il tentativo non riuscito di uccidere Marco Antonio, il fedelissimo di Cesare. Durante la moderna civiltà delle immagini, attorno al corpo esanime del grande Cesare, si sarebbe scatenata una ridda di T. V. Niente di ciò accadde alle idi di marzo del 44 a. C. e il cadavere rimase a lungo per terra abbandonato. I sicari avevano pensato addirittura di gettarlo nel Tevere. Lo portarono, più tardi, a casa sua, tre schiavi sopra una lettiga.
A capo dei cospiratori – 23 quante le pugnalate – Marco Bruto (“Tu quoque Brute, fili mi!”) e Caio Cassio. Quel Bruto era l’omonimo di colui che, molto tempo prima, aveva cacciato l’uguale despota, Tarquinio il superbo, ultimo Re di Roma. Pensarono di aver compiuto un tirannicidio per la salvezza dell’Urbe; al contrario, dopo la scomparsa dell’uomo forte, ci furono 15 anni di lotte civili. Ad aizzare la folla contro gli accoltellatori, servì egregiamente l’astuta orazione funebre pronunziata da Marco Antonio al quale Shakespeare fa declamare : “Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Bruto dice che Cesare era un ambizioso e Bruto è un uomo d’onore. Però, a Cesare, per tre volte, venne offerta la corona e lui la rifiutò”. Poi giù una sfilza di elogi per il defunto che mise il popolo contro Bruto e compagni, costretti a darsela a gambe.
La nemesi storica li colpì pesantemente, perché nessuno di loro morì di morte naturale. Avevano agito per ridare al popolo la libertà e il popolo li ripagò con falsa moneta. Caio Giulio Cesare, al di là delle nobili intenzioni dei congiurati, aveva rappresentato, per Roma, la gloria, la potenza, quasi l’invincibilità delle legioni sui campi di battaglia. Non poteva capire il popolo che le libertà non possono essere mai subordinate a nessun uomo, valoroso che sia, e l’intera comunità affidata al suo potere incondizionato. Nel 27 a. C., sconfitto Marco Antonio, tornò a Roma Ottaviano, divenne Augusto ed assicurò un lungo periodo di pace alla città (“pax romana”). Gli successe Tiberio, uomo crudele e depravato. Dopo di lui e come lui, molti aggiunsero al proprio nome il titolo di Augusto; sino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, nel 476 d. C., quando Odoacre, generale di etnia germanica, depose l’ultimo Imperatore Romolo Augustolo.