di AMAR – Ci fu un quotidiano nazionale, al tempo del primo Governo guidato da Mussolini, che – nel magnificare da subito l’operato dell’uomo nuovo al comando – preferì sostituire il termine troppo radicale di rivoluzione fascista con il meno impegnativo rinnovazione fascista. Il significato però rimase tale e quale e senza mitigare la sua impronta leccapiedista data all’informazione. Più di un organo di stampa infatti decise di sostenere l’operato del regime sin dalla nascita, insieme a quelle forze politiche e sociali orientate a barattare la libertà in cambio dell’ordine e della disciplina.
Certo, la situazione interna, in Italia, mostrava segni di scollamento e le nostalgie per un modello di vita meno confuso avevano trovato spazio all’insegna delle parole d’ordine ben più ascoltate degli ideali libertari. Quasi giustificando i metodi violenti in uso dalla parte del nuovo movimento in camicia nera. Per gli spiriti deboli, parve il rimedio quasi naturale ai malanni del tempo: il solito uomo forte di tante storie passate, rappresentava il toccasana risolutivo d’ogni questione ed a lui venne concesso un potentato al di fuori delle regole democratiche.
Il padrino di battesimo del Governo, nato all’indomani della “marcia su Roma” (28 ottobre 1922), fu il brevilineo Vittorio Emanuele III. Rifiutò il Sovrano di firmare la dichiarazione di stato d’assedio per impedire il raduno armato delle falangi mussoliniane e il potere finì nelle mani sbagliate. Ed eccolo il solito giornale giudicare la decisione “il buon senso del Re” con l’aggiunta: “Ha reso un grande servizio alla Nazione della quale è degnamente l’augusto capo”. Il giudizio positivo era spiegato dalla constatazione che “il Re ha saputo sceverare l’essenziale dall’apparente” e ben valutare “la sostanziale bontà dei fini che si propone di conseguire il movimento fascista”. Che la scelta fosse una necessità della confusa situazione italiana, divenne pensiero condiviso da autorevoli personaggi della società civile, estranei all’ideologia, alcuni dei quali entrarono in quel primo Governo Mussolini, per assecondare, di sicuro provvisoriamente e in buona fede, la “normalizzazione del Paese”. Invece, ottenuta la fiducia parlamentare il 17 novembre 1922, durò 7.572 giorni, sino al 25 luglio 1943.
Dissonanti, seppure poco ascoltate in quel clima di infatuazione, le voci altrettanto autorevoli di uomini politici e di cultura come Giuseppe Prezzolini. Scrisse, cinque giorni dopo la “marcia”, rivolto ai colleghi giornalisti: “Io sento tutto il dolore per il modo come si sono svolte queste giornate; sento l’offesa che si è recata alla libertà. Mi domando se voi non vi sentite responsabili di tutto ciò per non aver levato la voce contro le illegalità, gli abusi, le brutalità che si stavano commettendo”. Gli fece eco, nel giudizio alla “marcia”, il liberale Giustino Fortunato: “Chi mai ci avrebbe predetto tutto ciò? La “salvezza” al prezzo della violenza e della illegalità”. Il Corriere della Sera commentò: “Il colpo di mano fascista è in corso di esecuzione. I giornali sono stati avvertiti che il partito ha deliberato di stabilire un controllo sulla stampa. Finché abbiamo libertà di parola, noi consideriamo dovere nostro elevare una ferma protesta contro questa deliberazione.”
Sin da subito le minacce alle libertà di opinione furono palesi, ma gli osanna dei cultori dell’ordine nuovo prevalsero. Persino il Parlamento venne gravemente insultato: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli” (discorso Mussolini, 16 novembre 1922). Non riuscirono ad illuminare il tunnel buio imboccato dal popoli italiano neppure esempi di clamorosa violenza come i fatti di Torino dello stesso mese di novembre. Quando – così riferì l’informazione ancora indipendente – “la periferia e i quartieri operai sono stati preda delle squadre fasciste accanitesi contro uomini e cose, causando 11 morti, decine di feriti e devastazioni.” Altra parte della stampa nazionale presentò l’evento all’opinione pubblica come “uno strascico del passato, l’ennesima manifestazione del conflitto tra fascisti e comunisti.”
Il potere di censura del Capo del fascismo sugli organi di stampa risultò manifesto nelle direttive inviate ai Prefetti. Una intimava, in termini perentori: “Chiami Direttore Avanti e significhi che se pubblicherà altro articolo su finanza allegra Governo, sospenderò giornale.” Le critiche del Lavoro di Genova furono definite “contegno insolente e inammissibile”. Su diversa sponda c’era invece (esempio Il Messaggero) a sviolinare in tal modo Mussolini: “Si può ben dire che la sua parola, dolce e dura, immaginosa e sprezzante, esprima, in una trasparenza di cristallo, la vivente varietà del suo spirito creativo che mai non ristà (9 giugno 1923)”.
La conferma del favore popolare al fascismo – seppure sovente strappato a mano armata e con brogli ovunque, come denunciò coraggiosamente Giacomo Matteotti – venne dal voto popolare nelle elezioni del 1924: il listone Mussolini ebbe oltre il 60% dei suffragi. E forse non fu estraneo alla emanazione, tra il 1925 e il 1926, delle cosiddette leggi fascistissime, che modificarono il quadro normativo italiano, consolidando le basi del regime.
Il Presidente del Consiglio divenne Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato; il controllo sull’informazione codificato nel senso che il Direttore di qualunque testata doveva avere il gradimento del potere fascista; lo sciopero proibito in qualsiasi forma, la legge elettorale modificata attraverso l’istituzione della lista unica ed i candidati scelti dal Gran Consiglio del fascismo. Fu anche creato il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Poi, vennero i tempi del “credere, obbedire, combattere”, dei discorsi dal balcone affacciato sulla storia, dell’oro alla Patria e l’Italia, alla fine del ventennio, si ritrovò in tocchi, come disse il Re a Mussolini il giorno che lo fece arrestare. Purtroppo mancavano ancora i mesi funesti della Repubblica sociale e della sanguinosa guerra civile, in numerosi episodi trasformata in lotta per bande. (continua)