Benito, Gabriele ed Italo in competizione nello “sport” dell’ardimento
di Adriano Marinensi
Nel pollaio del fascismo ci furono tanti galli a cantare. Tra i tanti, s’udirono tre chicchirichì di maggiore sonorità, rispetto agli altri e tra di loro. Insomma, tre i BIG: Benito, Italo e Gabriele. Cercarono gloria e popolarità (meglio scrivere populismo). Una competizione di rilievo nel gran pavese del regime, costruito (il regime) ideologicamente sull’inganno della propaganda, fatta di nazionalismo, retorica, ardimento. Il dannunziano memento audere semper. E quindi episodi eclatanti, esibizioni temerarie, imprese da avanspettacolo. Non ci fu fraterna sintonia tra loro; soltanto obbligatoria tolleranza, per tornaconto politico.
Di certo il dux dell’impero primeggiò per potere e incidenza storica, però la rinomanza conquistarono anche il Vate Gabriele D’Annunzio ed il trasvolatore Italo Balbo. Benito si sentiva il sole e disdegnava l’ombra. I dissidi con gli altri due furono soprattutto un problema d’ombra. Il fascismo si è retto sul sostegno fideistico del popolo conquistato dalle doti istrioniche del suo capo. E quando il popolo si allontanava, bastava inventare un nemico oppure sventolare una impresa patriottica, utilizzare la più squillante demagogia, per riportare le pecore all’ovile.
Indole aggressiva e cipiglio ad effetto
Una amicizia contrastata ci fu tra Mussolini e D’Annunzio. Li dividevano all’anagrafe venti anni esatti (Benito era il più giovane ) e una vistosa differenza sociale: Gabriele aveva natali di censo e lignaggio, l’altro era il figlio del fabbro. S’incontrarono presto sul terreno delle ambizioni, usando entrambi la loro indole aggressiva e il cipiglio ad effetto, che è innato negli agitatori di piazza. Non furono mai nemici, ma neppure amici per la pelle. Di mezzo c’era il ruolo sul proscenio da occupare in permanenza. Quel ruolo, all’inizio, Benito lo trovò nella fondazione dei fasci di combattimento e nella Marcia su Roma; Gabriele nella Beffa di Buccari e la Repubblica del Carnaro. Entrambi donnaioli di razza: Benito, a Palazzo Venezia, usando il fascino del prestigio (su tutte Claretta Petacci), Gabriele anche “altrui domicilio”, con la malia dell’estroso artista e del focoso Ganimede (su tutte Eleonora Duse).
La spettacolare impresa di Fiume
I caporioni si trovarono d’accordo, alla vigilia della guerra 1915 – 18, sull’interventismo, anche se il Mussolini, ancora socialista, aveva parteggiato per la pace. Al pari di D’Annunzio, ideatore del motto Eia, eia, alalà: Viva l’amore! E di amore per la cultura, per la poesia, per l’estetica si nutrì. Gabriele. Non mirava a fare rivoluzioni, ma la teatralità delle sue gesta era nata insieme a lui. Alla vigilia dell’Impresa di Fiume -al pari di Giulio Cesare al Rubcone – scrisse a Benito: “Mio caro compagno, il dado è tratto”. Aggiunse: “Prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista!”
Il caro compagno non mantenne l’impegno di sostenere l’azione ed allora, Gabriele sdegnato chiese a Benito: “E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime e sgonfiatela. Altrimenti verrò io, quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma, non vi guarderò in faccia.” Dichiarò la Reggenza del Carnaro e ne assunse il comando in attesa del ritorno di Fiume all’Italia. Ma, il Trattato di Rapallo riconobbe la città territorio libero e indipendente. L’impresa si concluse con l’intervento dell’ esercito italiano che allontanò i legionari, il giorno di Natale del 1920. C’era stato, nel 1918, un precedente atto d’ardimento a dare lustro al Vate: la Beffa di Buccari, in Croazia.Si trattò di una incursione nel porto dove erano ancorate le navi austriache.
Il messaggio di scherno alla Beffa di Buccari
I MAS riuscirono a penetrare nella baia e D’Annunzio lasciò un messaggio di scherno: ”I Marinai d’Italia si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l’inosabile”. L’assalto non fece danni, ebbe però vasta eco in Europa e influenza negativa sul morale degli austriaci. Alla morte, nel 1938, l’Immaginifico ricevette esequie degne di un immortale. Era nato a Pescara, nel 1863, adottato da una zia materna e dal marito Antonio D’Annunzio dal quale prese il cognome. Trascorse ore gioconde nei salotti mondani di Roma. Col romanzo giovanile Il Piacere, dimostrò alte doti di narratore, confermate poi da una vasta produzione letteraria, poetica e teatrale. Venne nominato Principe di Montenevoso e Presidente dell’Accademia d’Italia.
Italo Balbo e la “Crociera aerea del Decennale”
Ladro di scena per gli altri due galli del pollaio, fu Italo Balbo. Autorevole quadrunviro della marcia su Roma, divenne famoso, nel 1933, portando a termine la Crociera aerea del Decennale. Una mirabolante trasvolata atlantica di massa, alla quale presero parte 25 idrovolanti che coprirono un percorso totale, andata e ritorno, su 13 scali. Dopo una difficile fase di preparazione, partirono da Orbetello, destinazione Chicago e poi New York. “Con il fermo proposito – scrisse Balbo – di portare le otto squadriglie alla vittoria sui cieli del Nord Atlantico”. Fu una avventura di eccezionale profilo aeronautico e pubblicitario che gli conferì la consacrazione di grande eroe dell’aria. Per lui ci furono accoglienze trionfali in America ed al ritorno in Italia.
Forse, la sua notorietà era diventata ingombrante per il dittatore che ormai aveva deciso di giocarsi tutto nella vicissitudine della guerra hitleriana e teneva necessità di assoluto consenso e totale attenzione dell’opinione pubblica, senza distrazioni d’altri protagonisti. Per allontanare Balbo dalle stanze dell’austerità romana, lo nominò Governatore della Libia. Era anche un camerata pensante, Balbo: il dissenso espresso alla adozione delle leggi razziali del 1938.
Abbattuto dal fuoco amico
Il 28 giugno 1940, diciotto giorni dopo l’inizio del conflitto (10 giugno), stava volando sul cielo di Tobruk, in Africa settentrionale. La contraerea italiana lo classificò “aereo non identificato” e gli sparò addosso. Finì così l’epopea di un gerarca di punta che aveva inseguito personali sogni di gloria. Al pari di Icaro, s’era avvicinato troppo al sole e le sue ali furono tarpate. Le cosiddette voci di dentro accreditarono la tesi dello zampino mussoliniano in quel fatale errore sul fronte di guerra. Una guerra, per gli italiani, lunga cinque anni di tormenti, fin quando tornò la pace e fu festa grande. Festa dell’anima, dello spirito, più che del corpo: la liberazione dalla paura, dall’angoscia, dal giogo della dittatura. Però a carissimo prezzo.