di Adriano Marinensi – L’art. 1 della L. 30 marzo 2004, n. 92 recita : “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, dei fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra”.
L’eccidio delle foibe è una delle pagine più nere scritte, per di più in maniera postuma, nella storia dell’ultima guerra mondiale. Quando la ferocia degli slavi di Tito si abbatté sui nostri connazionali residenti nella Venezia Giulia e in Dalmazia e gli inghiottitoi carsici, diventarono orrendi sepolcri per migliaia di persone. Forse, al paragone con i campi di sterminio nazisti, l’ignominia può sembrare minore; invece il sentimento malvagio fu lo stesso e causò un massacro al limite della pulizia etnica. Neppure compiuto in nome della libertà, ma per combattere una dittatura, quella fascista, ed instaurarne un’altra filo sovietica, pervasa dal medesimo istinto di prevaricazione. Senza alcun senso di giustizia, soltanto per realizzare una serie di vendette indiscriminate, troppo spesso a carico di innocenti e comunque in termini di barbarie.
Le milizie partigiane di Tito mischiarono, in quel contesto di violenza, le ritorsioni verso la “fascistizzazione” operata durante l’occupazione ad opera dei tedeschi e dei repubblichini della R.S.I., con l’odio nutrito verso l’Italia e così realizzarono l’operazione delle foibe. La Jugoslavia, dopo il colpo di stato del 27 marzo 1941, aveva sottoscritto un trattato di amicizia con l’URSS. A Roma e Berlino non la presero bene e, insieme agli ungheresi, lanciarono l’invasione del Paese. L’operazione si concluse in pochi giorni. Contro i conquistatori, Tito formò un Comitato militare e venne nominato comandante dell’esercito di liberazione. Le rappresaglie dei nazifascisti contro gli atti di sabotaggio furono particolarmente violente. Il Governo formato da Tito e dai suoi partigiani dopo l’8 settembre 1943, ricevette il riconoscimento nella Conferenza di Teheran. Con l’aiuto dell’Armata rossa, entro maggio 1945, la Jugoslavia fu liberata.
Nel 1948, inizia il cammino di Tito fuori della sudditanza all’Unione sovietica. Prende diverse iniziative politiche in dissenso con il Cremlino, come la via nazionale al comunismo che mette in discussione la direzione unica dei movimenti comunisti da parte di Stalin. A lui cominciano a guardare con simpatia le potenze occidentali. Una Jugoslavia su queste posizioni poteva far comodo, soprattutto in funzione di rottura lungo la cortina di ferro. Certo, si sa che Tito e i suoi complici di crimini ne hanno commessi molti, compresi quelli delle foibe. Però, l’interesse politico suggeriva di mettere il silenziatore. Per questa ragion di stato, di anni ne sono passati molti e il silenzio ha regnato sopra quelle fosse comuni, piene di cadaveri senza nome. Vittime di una operazione che ha coinvolto i cosiddetti collaborazionisti, i piccoli gerarchi costruiti in loco dai nazifascisti, cittadini senza colpa, in una ondata di giustizialismo sommario che, ancora oggi, può fare da testimone delle infamità derivate dalla guerra e dall’avversione razziale.
Poi è venuto il tempo del giusto riscatto nel ricordo perenne del sacrificio, questa volta senza differenze di appartenenza etnica e di nazionalità. Perché di fronte alla storia ed alla cultura della non violenza, la vita deve avere il suo trionfo e la morte data. la riprovazione. Si tratta di un costume di civiltà in antagonismo con il selvaggio agire degli uomini senza morale e senza pietas. Siano essi vincitori o vinti. Certe azioni scellerate, insieme al giorno del ricordo, meritano il biasimo perenne d’ogni Paese civile. La rimembranza va tramandata soprattutto ai giovani che gli orrori della guerra non hanno conosciuti e debbono diventare difensori della pace, della libertà, della misericordia. Che non