I muscoli di Putin contro il duopolio USA-Cina. Inflazione alle stelle in Europa per il caro-idrocarburi
di Bruno Di Pilla
Per i Paesi poveri di materie prime, come l’Italia, l’inflazione importata, da costi e domanda, è un vero flagello. L’esponenziale aumento del prezzo dei vituperati ma indispensabili idrocarburi (gas, petrolio, carbone) sta impoverendo famiglie, imprese, persino le pubbliche finanze di Stati costretti ad implorare l’altrui benevolenza per rifornirsi non solo delle tradizionali fonti energetiche, ma anche di selenio, uranio, titanio, materiali ferrosi, addirittura di grano e mais, che sono alla base degli alimenti essenziali per sfamare intere popolazioni.
Innegabile, in tal senso, è il monopolio naturale di cui gode, da che mondo è mondo, la Russia. Ecco perché Putin, evidentemente stanco di sentir parlare del celebrato duopolio planetario USA-Cina, ha deciso di mostrare i muscoli e minacciato di scatenare un conflitto militare che lui stesso, in definitiva, avrebbe volentieri evitato, comprendendone le disastrose conseguenze.
Strategicamente, bisogna dire che l’indiscusso erede dello zar Pietro il Grande è riuscito nell’intento di attirare su di sé le generali attenzioni, al tempo stesso stroncando (forse per sempre) il desiderio dell’Ucraina di schierarsi con l’Occidente ed entrare a far parte della temutissima NATO. Il modello Finlandia, Stato del tutto indipendente ed estraneo ad ogni organizzazione politico-militare, sembra l’unica soluzione plausibile per i cittadini dell’ex granaio dell’URSS. Già “decapitata” della Crimea, penisola annessa “manu militari” alla Federazione Russa nel 2014, l’Ucraina cerca ora disperatamente di non perdere anche la regione sud-orientale del Donbass, bacino del Donec ricchissimo di giacimenti petroliferi e minerari, oltre che di gas naturale, sul cui territorio si combatte da tempo una feroce lotta intestina tra filorussi e miliziani fedeli al Governo di Kiev. In sostanza, la guerra non conviene a nessuno. Non agli oligarchi russi, le cui ingenti ricchezze provengono dall’export in Europa di gas e petrolio, né, tanto meno, ai 27 Stati unionisti, Italia in testa, estremamente bisognosi di continui rifornimenti energetici a basso costo e terrorizzati dalla frenetica ascesa dei prezzi degli idrocarburi.
Anche gli Stati Uniti sarebbero ben lieti di curare gli affari interni evitando pericolosi coinvolgimenti bellici in terre lontane, specie dopo le dure esperienze novecentesche in Vietnam, Corea, Iraq ed il definitivo ritiro delle truppe dall’Afghanistan.