Il ritorno linguistico e ideologico nel vocabolario politichese
di Adriano Marinensi
Giambattista Vico, il filosofo solitario, napoletano verace, vissuto nel tempo dei lumi, sostenne la teoria della relatività del pensiero umano. Nessuna verità è accessibile per l’uomo, ma soltanto il verosimile. Cercò di dimostrare anche il succedersi dei corsi e ricorsi della storia seppure in epoche diverse. Un esempio che conferma le teorie vichiane, sembra poterlo cogliere nei corsi e ricorsi politici dell’Umbria moderna.
In questo mese di ottobre ricorre il centenario esatto di un evento che ha segnato la vita del nostro Paese. L’Umbria di quell’accadimento lontano un secolo, fu coprotagonista. Sede, a Perugia, di uno dei centri di adunata dei rivoluzionari verso Roma. Pure con evidente adesione alle chimere che animarono il movimento nero (nazionalismo, populismo, oligarchia, xenofobia). Il tutto tradotto, nel ventennio, in una folla di adepti al regime.
Terni al tempo del proletariato
Può fare da esempio la città di Terni, industriale e operaia da fine XIX secolo in avanti, prima impegnata nelle lotte prefasciste, poi militante non marginale nella destra col gagliardetto (non è peregrino citare il record di ternani iscritti al fascio). Superata la II guerra mondiale, tutto il nero divenne rosso e caratterizzò alcuni decenni di società, cultura ed amministrazione. A fare da motore, la cosiddetta classe operaia, affollata di metalmeccanici presenti in un ambiente incardinato sulla grande fabbrica e sul proletariato. Un periodo in parte vissuto nell’aspro confronto tra il focoso don Camillo e il ruspante Peppone.
Nel Consiglio comunale di Terni, intorno agli anni ’90 del ‘900 (quindi un paio di generazioni orsono, non più), i partiti di sinistra (PCI più PSI) avevano una maggioranza che superava i 30 membri su 50. Equivalente quindi alla presenza massiccia nell’elettorato. Poi, c’è stata la parentesi breve del “ciaurrismo” destrorso e il successivo ritorno della sinistra a Palazzo Spada. Tempo un solo mandato ed ecco Terni diventata leghista per approdare infine, lo scorso 25 settembre, sulla sponda del partito di destra, con la fiamma “patriottica” nel simbolo. La destra che abbaia. Insomma, una serie di salti mortali con avvitamento, poco coerenti dal punto di vista della tradizionale identità popolare.
Sinistra e destra, le parole risorte e i colori della roulette
Quando sinistra e destra, nel vocabolario politichese, erano sembrati termini morti, nell’occasione elettorale ultima, sugli organi di informazione sono ricomparsi titoli come “Ha vinto la destra” oppure “La sconfitta della sinistra”. Evidentemente, nel Partito di Giorgia Meloni, supportato da quello decadente di Matteo il vecchio, il termine centroè diventato aggiuntivo ed inutile. Checché ne pensi e dichiari l’ottantaseienne Silvio l’immarcescibile. Caro il nostro nonnetto (augurissimi per il compleanno dell’altra settimana, festeggiato con una nuvola di cuoricini rossi, sparsi dalla mongolfiera sulla amorevole panchina in giardino – che tenerezza! – colore però in evidente controsenso); caro nonno, colgo l’occasione per ricordare almeno un paio delle promesse (bugie?), elargite nel periodo privo di rimorsi di coscienza, con le quali hai inondato i teleschermi: 1) le mille euro al mese alle casalinghe; 2) i denti nuovi per le bocche (vecchie) dei pensionati.
Ho fatto cenno poc’anzi ad alcuni titoli di giornali. Anche all’estero, si va dicendo in coro (negli USA, il Presidente ha addirittura lanciato l’allarme nero) che “L’Italia è andata a destra”. Su la Repubblica, Concita De Gregorio ha fatto questa correzione matematica: “Giorgia Meloni e il suo partito – sostiene non a torto – sono stati votati da 7 milioni e 200 mila persone sui 45 milioni e mezzo di aventi diritto. Ha votato Meloni un italiano su 8. E’ molto, ma non è l’Italia”. Quindi De Gregorio aggiunge una valutazione sul crescente diffondersi dell’astensionismo.
Il non voto pericolo capitale per la democrazia
Scrive: “Fino al 1980, in Italia, è andato alle urne più del 90% degli elettori. Nei trent’anni successivi, sino al 2010, sono stati sempre più dell’80%. Domenica si sono presentati alle urne 29 milioni e mezzo di persone, 16 milioni non sono andate. E’ sicuramente, il dato più preoccupante per la tenuta della democrazia”. Al sottoscritto, l’astensione è parso un argomento non nuovo, però centrale nel discorso riguardante l’avvenire del Paese, un tema sul quale la riflessione politica dovrà concentrarsi, proprio in un momento di incertezza circa il riguardo assoluto dei valori comunitari, dell’accoglienza, della solidarietà, ivi compreso il rispetto umano verso qualunque colore della pelle.
Occhio vigile sulla gestione del potere
Resta il fatto che la guida dello Stato è passata di mano e quindi si tratterà di vigilare attentamente sui metodi di gestione del potere all’interno e nei rapporti internazionali. Vigilare su come l’Italia (questa volta tutta intera) verrà posta nello scacchiere europeo e di come l’Europa terrà nella debita considerazione il nuovo Governo. Siamo ancora in mezzo ad un guado difficile e pericoloso, con addosso una caterva di insufficienze legate allo sviluppo che s’è arrestato, ad un quadro produttivo alle prese con minacce di dissesto, al pericolo già presente di povertà in aumento, al rischio di tensioni nel mondo giovanile in cerca di occupazione e di certezze. E gli effetti di una guerra dissestante, lontana dalla conclusione. Guai se all’emergenza di carattere economico si aggiungesse il cono d’ombra della diaspora umanitaria.
L’attitudine alla soluzione di questi e molti altri problemi sarà direttamente proporzionale alla sensibilità democratica di chi sta per assumere l’impegno di governare il Paese. Ed all’autorevolezza della classe dirigente seduta in Parlamento (e nelle Istituzioni locali), sui banchi della minoranza. Che non vuol dire opposizione e basta. Le numerose crisi in corso impongono una opposizione progettuale, passo avanti rispetto a quella costruttiva. Purché la maggioranza si muova lungo una linea di alta qualità, aperta e disponibile al confronto ed all’ascolto. Speriamo di non dover registrare, nella storia d’Italia, che, dopo le ideologie, sono tramontati pure gli ideali. Di libertà, giustizia civile e pace sociale.