Di Adriano Marinensi – C’era una volta, in una capanna del bosco, un orco cattivo, anzi crudele, che mangiava i bambini. Gliene capitarono alcuni, li mise ad ingrassare e, quando furono belli in carne, decise ch’era ora di mettersi a tavola. Invece, per errore, uccise le orchessine sue figlie. E’ l’inizio di una delle favole ascoltate, quando fui bambino, che mi faceva molta paura.
Pressappoco settant’ anni fa, a mettere paura ai siciliani ci fu un altro orco, parimenti crudele – viveva pure lui nel bosco – vestito da brigante. Si chiamava Salvatore di nome e Giuliano di cognome. Era nato a Montelepre, al centro del triangolo Partinico – Carini – Monreale, nello stesso anno durante il quale un altro suo simile stava organizzando la marcia su Roma (1922). Due personaggi, di differente dimensione, ma entrambi protagonisti di tragedie sanguinarie.
E’ il 1943. Nell’Isola, la 2^ guerra mondiale è appena terminata, quando Giuliano compie il suo primo omicidio. Lo ferma una pattuglia dei Carabinieri e lui ha con se due sacchi di grano destinati al mercato nero. Per liberarsi d’impaccio, si mette a sparare, uccide un militare e si da alla macchia. E’ l’inizio di una scia di sangue che durerà per sette lunghi anni. Il secondo Carabiniere lo ammazza poco tempo dopo durante una perquisizione in casa dei suoi genitori. Poi, con una azione ardita, fa evadere dal carcere alcuni parenti che diventano membri della sua banda. Insieme a loro e ad altri. da inizio ad una sequela di rapine e sequestri a scopo di estorsione. E di assalti, scontri a fuoco con le forze dell’ordine, vendette private oltre a numerosi assassini di avversari scomodi.
In Sicilia è attivo il Movimento Indipendentista e Giuliano si accorda con i suoi capi. A Roma cominciano a considerarlo un pericolo pubblico. Il Luogotenente del Regno Umberto di Savoia manda a dargli la caccia 1000 uomini. Poi, da Re di maggio, concede lo Statuto speciale alla Sicilia. Mentre Carabinieri e Polizia lo cercano tra i monti, lui rilascia comode interviste alla stampa americana. Ad un giornalista consegna una lettera per il Presidente Truman con la proposta di annessione della Sicilia agli Stati Uniti. Roba da manicomio criminale! Intanto cresce la sua attività banditesca insieme alla leggenda dell’imprendibilità, tra connivenze, favoreggiamenti, protezioni, omertà tipiche di una società contorta qual era all’epoca la Trinacria.
L’economia, prevalentemente rurale, era basata sul latifondo. I contadini lavoravano le terre dei grandi agrari, in una sorta di logica feudale, dove vigevano le regole drastiche dei sedicenti uomini d’onore. Il resto lo faceva la legge della lupara, in mano ai picciotti al servizio dei “mammasantissima”. Su questa realtà solidificata, nell’aprile 1947, ha un effetto dirompente il successo elettorale del “Blocco del popolo” (PCI + PSI) all’Assemblea regionale siciliana. A tal punto della storia, si innesta l’azione più eclatante e delinquenziale della banda Giuliano : la strage di Portella della Ginestra.
E’ il Primo Maggio 1947. In quella località si raduna una massa di siciliani per trascorrere insieme la festa dei lavoratori. Una iniziativa certamente invisa ai poteri dominanti che organizzano a modo loro la vita nei borghi. Salvatore e i suoi sono appostati sui colli attorno e sparano sulla folla. A sentire quei botti, qualcuno pensa si tratti di fuochi d’artificio, invece sono pallottole. Risultato : 11 morti e 27 feriti. Un assalto vile che innesca una pluralità di reazioni e supposizioni circa i mandanti, perché è ragionevole che i banditi non abbiano agito di loro iniziativa. Girolamo Li Causi, segretario siciliano del PCI, ipotizza la mano nera degli agrari diretta a dare un avvertimento al movimento contadino. Giuliano ha un parente tra gli uomini di fiducia; si chiama Gaspare Pisciotta che, più avanti, giocherà un ruolo da protagonista assoluto. Al processo per i fatti di Portella, tenterà di accreditare la tesi del complotto politico. Dichiara Pisciotta : “Banditi, mafiosi e Carabinieri erano la stessa cosa”. E giù, un ricco elenco di personaggi importanti e di illecite collusioni. Non offre alcun riscontro e i giudici non gli credono.
Passano appena due anni (agosto 1949) e un’altra strage porta la firma degli stessi autori di Portella: a Bellolampo, pochi chilometri da Palermo, preparano un agguato spettacolare alle Forze dell’ordine, provocando 7 morti e 11 feriti. Il Ministero dell’Interno risponde creando il Comando Forze di Repressione Banditismo agli ordini di un uomo di prestigio, il Colonnello Ugo Luca, il quale riesce, in poco tempo, a catturare alcuni componenti della banda.
Manca però la “primula rossa”, l’irraggiungibile, l’orco assassino che ha dimora nel bosco. E’ il 5 luglio 1950 e dal Comando F.R.B. viene diffusa una notizia che fa il giro d’Italia: il famigerato bandito Salvatore Giuliano è stato ucciso durante un conflitto a fuoco con un reparto dei Carabinieri. Le foto ufficiali mostrano il corpo all’interno del cortile di una casa, a Castelvetrano, vicino Trapani, E’ la fine di un incubo e l’inizio della caccia alla verità. Perché, sin da subito, la versione raccontata non convince. Ci sono troppe incongruenze. Infatti, durante il processo di Viterbo, a dare la versione giusta, ci pensa Gaspare Pisciotta: ad uccidere Giuliano è stato lui, la notte prima del rinvenimento del cadavere nel cortile, mentre dormiva. I Carabinieri sono arrivati a cose fatte. Per questo e i tanti altri reati commessi, Pisciotta si becca la pena dell’ergastolo. Dal carcere fa sapere in giro di una lettera recapitata, il 27 aprile 1947, a Salvatore Giuliano con l’ordine della strage di Portella della ginestra. Sa tante altre cose Gaspare per averle vissute da comprimario.
Forse per questo, il 9 febbraio 1954, gli “offrono” un caffè corretto alla stricnina, veleno usato per ammazzare i topi all’Ucciardone di Palermo dove si trova recluso. Siccome non si fidava del cibo carcerario, dicono che avesse con se un passero al quale lo faceva assaggiare per primo. Ma, i passeri – si sa – non bevono caffè e lui la pelle ci rimise. Con la sua morte, la saga della banda sanguinaria s’era conclusa. Gli aspetti reconditi delle tante vicende banditesche, rimaste per gran parte sconosciute, i retroscena mai rivelati, i nomi dei mandanti ignoti, finirono dentro due tombe (di Salvatore e Gaspare) dove restarono a montare la guardia i masnadieri invisibili, depositari di un miscuglio di segreti indecifrabili, uno dei primi coni d’ombra ad aprire la lunga lista dei silenzi all’italiana. Il cinema tentò di ricostruire l’intera trama con alcuni film che meritano la citazione: Salvatore Giuliano (di Francesco Rosi), Il siciliano e Il caso Pisciotta. La realtà dei fatti delittuosi rimase comunque celata dentro le quinte della rappresentazione scenografica. Il cinema di più non avrebbe potuto fare.