Di Adriano Marinensi – Questa “memoria” l’ho scritta una quindicina di anni fa. Siccome però, per taluni aspetti, si inquadra nel clima natalizio, allora mi sia permesso di riproporne taluni passi ai miei cinque o sei lettori, per rappresentare un ricordo di vita (la mia vita) e di un mondo (l’Umbria che… c’era una volta), ormai al tramonto. Però non senza qualche apostrofo di malinconia per la perdita di un patrimonio sociale, di quando la “medaglia” aveva due facce: da un verso il peso del travaglio quotidiano, dall’altro l’ambiente molto più vicino alle sensibilità umane, ancora non frastornate dai “fattori” del nuovo senz’anima. Or dunque, il racconto.
La casa, anzi, il casolare, stava in cima ad un colle verde, come tanta Umbria è verde. La località si chiamava (e si chiama) Serra Brunamonti, dalle parti di Gubbio. Paesaggio umbro verace, nella magnificenza dela sua natura. Però natura appartata che, talvolta, nel sonno del lungo inverno, dava mestizia. Era soprattutto campagna, disseminata di poderi, organizzati su schemi quasi medievali. Con il “feudatario”, padrone di un austero maniero e d’ogni terra attorno. Vi sbarcava il lunario, un esercito di mezzadri e rispettive famiglie, che spartivano la fatica tra loro ed il raccolto con il nobile castellano. Eravamo verso la metà degli anni ’30 del ‘900, quando i volontari (?) italiani partirono per conquistare l’Impero al canto cadenzato di “Faccetta nera”.
Vissi in quei luoghi, quand’ero nato da poco, insieme ad una mia zia maestra, mandata lassù ad insegnare l’abbecedario ai figlioli dei lavoratori agricoli. Per svolgere la didattica missione, si viaggiava in treno da Terni sino alla stazione di Branca, via Fossato di Vico. Poi, di li, in cima al colle, con il calesse del fattore, trainato da una cavallina storna (Pascoli). Il casolare che fungeva da casa – scuola, era di fronte all’imperiosa magione, così come può stare un nano al cospetto d’un gigante. L’architettura appariva di quelle classiche della nostra ruralità.
Al piano terra la cantina e la stalla, accudite da un vecchio colono. Attraverso la scala esterna, che culminava con il solito minuscolo poggiolo, si accedeva al piano di sopra. All’accesso, il vano scolastico, con una mezza dozzina di banchi, frequentato da una sparuta brigata di alunni di differente età, senza distinzione di classe (elementare). Poco oltre, la finestra della piccola cucina affacciava sull’aia pigolante e sulla vaccheria, donde saliva l’olezzo grasso dello stallatico. L’esigua camera da letto e il minuscolo servizio completavano l’alloggio della signora maestra. Venivano alla fonte del sapere, ogni mattina, i discepoli rubati alle faccende dei campi, talvolta con le scarpe in una mano, per evitare le copiose zacchere, e nell’altra un mozzico di colazione. Mani dure e volti imberbi, ma già segnati dai raggi del sole e dal vento che viene da nord. In campagna, cominciano presto ad aggrinzarti la pelle ed a cerescerti gli anni addosso.
A Serra Brunamonti, trascorsi i mesi di un anno scolastico. Ci sono tornato, dopo mezzo secolo, in automobile e, nella mente, impresse vaghe immagini di quella remota puerizia. Superato, per la cortesia del consegnatario della chiave, il cancello chiuso, posto a metà di un ponticello cavalcante il fosso di confine del latifondo, ho ritrovato, daccapo all’aspra salita, la grande fattoria, tal quale com’era. Una signora sulla quarantina, che della vicenda della casa – scuola, degli educandi scalzi, della solitaria maestra, non era stata certo, per età, testimone oculare, stette a sentire le mie succinte indicazioni. Dopo averci pensato un po’ su, mi indirizzò più avanti, alla fine di un viottolo sterrato, a destra, cento passi dopo l’ingresso di servizio dell’ancor nobile palazzo, affidato alla sua guardiania. “Chissà, forse quella – disse la donna – è la casa dei vostri ricordi”.
Così, quasi per ventura, ho ritrovato il “mio” casolare, ormai quasi cadente. Una bicocca: la porta senza porta, le finestre senza finestre, il tetto attraverso il quale si vedevano pezzi di cielo. Spirava in quelle dirute stanze, diventate ormai quasi stamberghe, il respiro d’altro tempo, immerse nella loro mutezza, senza più dignità edilizia alcuna. Il ricordo era vivo, come la commozione che aveva fermato i miei passi; il casolare invece era morto. Morto similmente a tantissimi altri nei pressi e altrettanti altrove. Memorie neglette di una umanità scomparsa, di esistenze dimenticate, di momenti sociali desueti. Segni tristi dell’abbandono deciso dall’uomo moderno. Che è anche cancellazione di valori. Un rinnegare quasi le origini e la storia di una regione, l’Umbria agricola. Costumi e tradizioni che, se aggiornati, appaiono degni di essere riconosciuti.
Ora una breve appendice al racconto. Per dire dell’abisso che differenzia i tempi e le “usanze” dei fanciulli d’allora – e quindi le mie – da quelle attuali. Usanze ambientate nei paraggi del poco prima e del poco dopo l’ultima guerra mondiale. A mezzo pomeriggio, era andazzo sovente mangiare fette di pane fatto in casa, dentro la madia (dalla nonna, ogni quindici giorni, rigorosamente farina, acqua e lievito di birra), condite con poche gocce d’olio e il sale quanto basta. Olio spremuto dalle olive del “piantoneto” di famiglia, raccolte a mani nude, durante il freddo della tramontana. Ai giorni presenti, quando mai, pane e olio ai rampolli! Farebbero smorfie di disgusto. A metà pomeriggio ci sono le merendine (e cos’altro, sennò?), confezionate, in quantità industriale, con ingredienti sfiziosi (chissà se tutti genuini); merendine imposte, al consumo dei fanciulli ignari (i genitori un po’ meno), dall’ultimo vangelo apocrifo: la televisione.
Quando diventai balilla, alle elementari, che frequentai nella campagna amerina – quella d’epoca remota, s’intende – spesso il mio compagno di banco, di estrazione villereccia, portava seco la colazione a base di pizza rustica. La pizza – si diceva – “cotta sotto il fuoco” e preparata con la pasta delle pagnotte, infornate la mattina stessa, alla buon’ora. Ne ero ghiotto assai. E lui del mio pane e cioccolata. Sovente avveniva il baratto, per la reciproca soddisfazione del palato.
Era il tempo della penna intinta nel calamaio, infilato nel buco del banco, in alto a destra, che non pochi danni produsse, col suo inchiostro nero, al grembiulino uniforme, munito di fiocco azzurro. Accanto alla cattedra, stava arcigna la lavagna nera (munita di gessetto e cancellina), dove il capoclasse, in assenza dell’insegnante, discriminava i buoni dai cattivi. Strumento didattico primario, la lavagna, per l’istruzione d’epoca. Oggi, l’alunno di fascia media viaggia a computer e cellulare, Internet e face book, usati anche per coltivare cattivi incontri virtuali e non. Sembra, talvolta, con l’aggiunta di qualche “pizzicatina” di corroborante proibito, che rende immemore l’orgoglio della giovinezza. In una realtà – almeno quella ove io vivo (Terni) – vecchia nel pensiero, povera di certezze, non sono affatto sicuro che i ragazzi siano – come dice certa insulsa pubblicità – “liberi di diventare grandi”.