di Marina Sereni – La Corte Costituzionale si è pronunciata in merito all’ammissibilità dei referendum abrogativi sul Jobs Act. Come molti tra giuristi ed esperti avevano previsto sono stati considerati in senso positivo i quesiti sui voucher e sui subappalti mentre è stato rigettato quello sull’articolo 18. Saranno le motivazioni a chiarire nel dettaglio le ragioni di questa sentenza, probabilmente legate alla natura plurima e manipolativa del quesito sui licenziamenti, ma già oggi è possibile una riflessione sulle conseguenze politiche che essa produce. Intanto, all’indomani della discussione sulle mozioni di sfiducia nei confronti del Ministro Poletti al Senato, si dimostra l’infondatezza di una serie di polemiche sulla presunta volontà del Governo di andare ad elezioni presto “per evitare il referendum sull’articolo 18”. La conclusione della legislatura e l’eventuale scioglimento anticipato delle Camere sono, come detta la Costituzione, nelle mani del Presidente della Repubblica e saranno semmai legati all’esistenza o meno di una maggioranza in grado di sostenere l’azione del Governo Gentiloni.
Gli altri due quesiti riguardano punti assai più specifici del Jobs Act e meritano una riflessione per verificare se in Parlamento ci sono – come credo – le condizioni per superare le criticità e i limiti che si sono manifestati in questi primi anni di attuazione della riforma. Non per evitare con qualche escamotage il pronunciamento popolare ma per risolvere problemi reali che si sono registrati nell’applicazione di alcune norme. Con una consapevolezza ed una avvertenza: non è il Jobs Act ad aver creato precarietà. Esso semmai ha fatto emergere fenomeni che prima erano sommersi, non rilevabili. Dobbiamo andare alla radice di questo problema: perché in Italia ogni norma volta a consentire un giusto grado di flessibilità nel mercato del lavoro si trasforma in un abuso? Per arretratezza del nostro sistema imprenditoriale che scarica sul costo del lavoro le sue insufficienze? Per le inefficienze del sistema pubblico che “costringono” le aziende a ricavare margini di profitto e di produttività a scapito dei diritti dei lavoratori? Auspico nelle prossime settimane un confronto sia con le organizzazioni sindacali che con il mondo delle imprese per trovare dei correttivi efficaci alle norme in vigore ma anche per fare un “patto” più ampio sul terreno della produttività e della qualità del lavoro, della tutela dei diritti e della capacità di innovazione. Siamo nel pieno della Quarta Rivoluzione industriale: l’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, la sfida è sul terreno della ricerca, dell’innovazione, del contenuto intellettuale delle produzioni, delle economie di scala da realizzare in una competizione sempre più agguerrita nei mercati internazionali. Quanto lavoro si distrugge a causa del sempre più impressionante progresso tecnologico? E quanto se ne può recuperare innovando continuamente prodotti e processi? E in quali settori conviene investire per creare nuova e buona occupazione? Le risorse di Industria 4.0 sono un’occasione da non perdere. Contemporaneamente ambiente, cultura, servizi appaiono sempre di più come bacini essenziali per far crescere nuove imprese e lavoro di qualità. Sobrietà, sostenibilità e solidarietà non sono più valori per le anime belle, ma fattori che possono arricchire la qualità dello sviluppo e creare nuove opportunità.
In Italia ma anche nelle altre economie avanzate c’è un problema crescente di redistribuzione e di protezione sociale delle fasce sociali più deboli ma c’è anche un fenomeno più largo, strutturale, che riguarda i cambiamenti del lavoro. Favorire la crescita è indispensabile, ma non è di per sé sinonimo di aumento dell’occupazione. La sentenza della Consulta ci evita uno scontro di tipo ideologico con la testa rivolta al passato. Ma ci obbliga ad un impegno serio di riflessione e di confronto tra tutti i soggetti interessati e per definire e sperimentare norme e politiche capaci di coniugare davvero competitività e diritti. Non è tutto nelle mani della politica, ma il Pd può e deve misurarsi in Parlamento e nella società con questa sfida, riallacciare su questo terreno un dialogo con chi cerca un lavoro dignitoso e con chi è disposto a rischiare per crearlo.