Di Adriano Marinensi – C’è, in Umbria, nel territorio del Comune di Gubbio, un minuscolo borgo che sembra avere un nome ed un cognome: si chiama Serra Brunamonti. Ci ho trascorso il tempo di un anno scolastico quand’ero nato da poco.
E stavo insieme ad una mia zia, maestra elementare, mandata lassù, sopra quell’ermo colle, ad insegnare l’abaco, non alle formiche di Geppetto, ma ai figlioli dei contadini che lavoravano a mezzadria in un latifondo.
Del luogo solitario, che mi parve fosse fuori del mondo, ricordo poche cose. La casa ove abitammo, con le scale esterne, tipiche dei casolari di campagna – che oggi, in tanti, giacciono nell’abbandono – il casale e la corte intorno del fattore e soprattutto l’austero maniero della famiglia Torlonia. Una stanza della nostra dimora fungeva da aula scolastica. Vi si impartiva un sapere senza distinzione di classe nel senso che, avessero gli alunni sei oppure dodici anni, il “programma di studio” era uguale per tutti. Anzi per i pochi rubati all’agricoltura. Non risultava facile trattenerli sui banchi i discepoli: ad essi ed alle loro famiglie, il sapere appariva superfluo. D’altro canto, i più vecchi erano sempre vissuti dissodando la terra e firmando con la croce, dalla fanciullezza alla senilità. D’inverno, alcuni arrivavano a scuola con le scarpe in mano per evitare le zacchere.
Il fattore, temuto e riverito, era personaggio autorevole. Doveva soprattutto controllare i raccolti, affinché il bifolco non facesse la cresta. Il lavoro a mezzadria infatti funzionava così: il coltivatore e il suo parentado ci mettevano lo satrapazzo che ti segnava la faccia, ogni stagione una ruga; il “valvassore” (ozioso), pensando il feudalesimo non fosse ancora finito, concedeva, bontà sua, il podere. Poi, nella migliore delle ipotesi, si faceva ai mezzi. La terra era avara e toccava trattarla con il dovuto impegno se non volevi patire la fame. Nella cascina, quasi fosse un Presepe, i faticatori vivevano insieme al bue e all’asinello ed agli altri animali da cortile.
A Serra Brunamonti, l’agrario se ne stava rinchiuso nel suo castello off limits, appartenente, come già detto, alla facoltosa famiglia dei Torlonia. Non so dire se di un ramo principale o cadetto. Pur sempre un rampollo pieno zeppo di quarti di nobiltà e di risorse economiche. Perché, i Torlonia forse erano nati già ricchi; poi diventarono ricchissimi e pure principi, banchieri di enorme pecunia, proprietari terrieri di mezza Italia centrale. La famosa bonifica del Fucino fu opera loro. Sopra un altopiano carsico, oggi in provincia de L’Aquila, in antico ci stava un enorme lago, uno dei tre più estesi della penisola. Caio Giulio Cesare si mise in testa di svuotarlo per recuperare a Roma e all’agricoltura il suo enorme bacino. Vennero per lui le Idi di marzo e non se ne fece nulla. Ci provarono Claudio, Traiano e Adriano, riuscendo a rubarne soltanto una parte.
In epoca moderna, dell’impresa si fece carico Alessandro Torlonia. Era un pozzo pieno di scudi e pure un profilo da eroe greco, tanto appariva ardua l’avventura. E allora, o Torlonia asciuga il Fucino o il Fucino asciuga Torlonia. Mise in piedi una società e, procuratosi la Concessione, chiamò a lavorare migliaia di operai piovuti da diverse parti d’Italia. Alessandro giocò e vinse la grande lotteria che aveva al primo premio, per lui, nientemeno che la proprietà delle terre conquistate. Un patrimonio immenso di 16.500 ettari, dei quali una parte modesta fu assegnata ai Comuni. Con la parte sua ci realizzò 500 poderi di 26 ettari ciascuno: aveva sottratto l’acqua al lago e il lago gli restituì un tesoro. Il Re Vittorio Emanuele lo nominò Principe del Fucino.
Ignazio Silone nel romanzo “Fontamara”, scrive: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi nulla, poi nulla, poi ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito.” Il romanzo racconta una vicenda di contadini e di angherie in un paese immaginario, Fontamara, appunto, collocato, non per caso, nella Marsica, che ha il Fucino in mezzo.
Un altro Torlonia, molto conosciuto ai tempi del fascio, ha nome Giovanni. Si è procurato una patriottica notorietà affittando (si fa per dire) a Benito Mussolini, nel 1925, grossa parte della sua smisurata villa, affacciata sulla Via Nomentana, a Roma, per il canone simbolico di una lira. Dimora patrizia, sontuosa e antica, cominciata a costruire nel 1806, su progetto dell’ architetto romano Giuseppe Valadier (quello della famosa “Casina” sul Pincio). Committente l’antenato Torlonia Giovanni Raimondo. Il duce ci abitò, con l’intera famiglia sino al 1943. Si trattava di un edificio di rilevanti proporzioni, arricchito da tanta natura attorno e diviso in diversi corpi di fabbricato indipendenti. La famiglia del duce prese dimora nel cosiddetto Casino nobile, mentre il Principe si ritirò nel Casino delle civette.
Quando venne la guerra, subito si pose il problema di tutelare la sacra persona del dittatore. In un primo momento fortificarono le cantine con porte d’acciaio e dispositivo antigas. Ma non parvero a prova di bomba ed allora vennero realizzati due poderosi bunker in cemento armato ad immagine e somiglianza dell’altro esistente sotto la Cancelleria di Hitler, a Berlino. Nel grande parco c’era il galoppatoio per le maschie cavalcate del duce, riprese dai solerti cineoperatori per le enfatiche sviolinate dei “Film Luce”, molto applaudite nelle sale cinematografiche dello stivale. Insieme alle imprese ginniche del capo, alle esibizioni a petto in fuori sulle trebbiatrici, alle deliranti concioni, col mento prognato, dai tanti pulpiti allestiti per lui in ogni dove.
La foto della facciata principale del Casino nobile fece il giro del mondo fascista in occasione delle nozze tra Edda Mussolini, la figlia prediletta da tanto padre, e Galeazzo Ciano, il rampante gerarca finito a Verona dinnanzi al plotone d’esecuzione, per aver sostenuto, nel Gran Consiglio del 24 – 25 luglio 1943, le ragioni dell’Ordine del giorno Grandi, che – a parte la sciagurata e sanguinosa parentesi repubblichina – pose fine al regime fascista.
Sono partito da una minuscola esperienza personale, per poi narrarne altre, più o meno note, appartenenti alla storia del nostro Paese. La storia di un lago diventato prima palude e poi enorme “miniera d’oro”, attraverso la distruzione di una preziosa riserva d’acqua e lo sconvolgimento sociale delle popolazioni del Fucino; la storia della smagliante dimora del maestro di Predappio; il tutto mischiato alla ingombrante presenza della famiglia Torlonia, ai suoi machiavellici disegni di ricchezza e potere, egregiamente descritti da Ignazio Silone.