Di Adriano Marinensi – Ormai da anni e in diverse sedi si continua a discutere sul tema dello sviluppo economico correlato alla sostenibilità ambientale delle attività umane. E spesso a considerare i due termini della questione in senso antagonistico. Nel dibattito entrano, come dati di fatto, la difesa dei livelli industriali, fattori di ricchezza e promotori di occupazione, ed il loro impatto sull’ambiente, dimostrato dal riscaldamento globale e dai cambiamenti climatici.
Gli effetti del contrasto sono ampliati dalle divisioni di interesse tra i grandi Stati e dalla carente solidarietà internazionale. Effetti che hanno diversi soggetti responsabili, arroccati in difesa di condizioni economico – finanziarie privilegiate, alcuni dei quali, nel passato più o meno recente, hanno addirittura tentato di disconoscere le conseguenze dei loro (pessimi) comportamenti sull’integrità della natura. Lo sviluppo come elemento indispensabile delle libertà socio – culturali dell’uomo, non può essere preponderante a prescindere, sulle esigenze di integrità del Pianeta e delle sue risorse naturali. Un esempio lo si può individuare nel rischio di estinzione di alcune specie animali, provocato dall’alterazione dei loro habitat e conseguente riduzione della biodiversità.
In questa sorta di tribunale permanente, ove il dibattimento tra le parti in causa non riesce a trovare la sentenza definitiva, c’è il rischio della irreparabilità dei danni. Una “camera di conciliazione” va promossa per concludere, in tempi brevi e ragionevoli, il confronto tra l’ ”accusa” (i processi di crescita, orientati soltanto alla ricerca dei “beni a profusione”, provocano disastri ambientali) e la “difesa” (la democrazia si tutela conservando la buona vita già esistente e creando nuova ricchezza). Così posti, o pressappoco, i problemi, non si raggiunge alcun obiettivo che garantisca equilibrio al presente e sicurezza al futuro. Un elemento positivo che potrebbe spingere verso la ricerca di soluzione è l’accresciuta sensibilità popolare verso questi problemi e la maggiore partecipazione dei cittadini, capaci di spingere con forza sulla strada di un progetto di crescita giusto e sostenibile. Su tale strada dovranno ritrovarsi anche i Paesi, sino ad oggi frenatori, per adottare con coraggio provvedimenti di immediata esecutività.
Ha ragione chi ha aggiunto ai dieci Comandamenti, l’undicesimo: Non inquinare (l’aria, l’acqua, il suolo). E non si inquina soltanto con la dispersione di “sostanze aggressive”, ma con comportamenti talvolta al limite della credibilità. Da qualche tempo, nei supermercati, sono apparse confezioni di cibi che recano questa scritta: “Senza olio di palma”. L’olio di palma si sta diffondendo nei cibi, nei cosmetici, nei prodotti per l’igiene e non solo. In più, nei Paesi produttori, vengono usati metodi di coltivazione di questa sostanza vegetale che impattano fortemente sull’ambiente. E’ il discorso principale che torna.
In Indonesia – “campione mondiale oleario” (di palma), con oltre il 50% di presenza sul mercato – dove pare abbiano scoperto, ormai da tempo, questo nuovo filone di arricchimento, si procede devastando le foreste tropicali, un patrimonio irripetibile dell’umanità. L’ “oro rosso” (rosso è il colore dei semi delle palme da olio) sta uguagliando, nei profitti, l’ “oro nero”, cioè il petrolio. C’è in atto la corsa ad estendere la messa a dimora di tali piantagioni, senza troppe preoccupazioni del danno alla natura. In sostanza, si distruggono foreste per far posto alle palme. Per di più, alcune operazioni avvengono con il fuoco che mette in circolo quantità enormi di sostanze nocive. I satelliti della NASA hanno accertato che, nel 2015, gli incendi in Indonesia sono stati 120 mila, nonostante le abbondanti piogge autunnali. Con un nocumento enorme anche per la fauna e, in particolare, per l’orango in fuga per salvarsi dalle fiamme. Così l’Indonesia è diventato uno dei principali inquinatori ed un acceleratore dei cambiamenti climatici del pianeta.
Uno studio, pubblicato alla fine del 2015, informa che, a causa degli incendi volontari, “in alcune città dell’Indonesia la visibilità oltre i 30 metri si perde nella nebbia”. Fonti autorevoli parlano di emergenza umanitaria. Di recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) ha dichiarato che l’inquinamento atmosferico causa sei milioni di vittime l’anno e soltanto 8 persone su cento respirano senza correre rischi. Lo studio poc’anzi citato riferisce che già 20.000 chilometri quadrati di foresta indonesiana sono andati in fumo. Ciò è dovuto pure alla convenienza economica: un ettaro di terreno produce quasi 4 tonnellate di olio di palma a fronte di meno di una tonnellata di olio di girasole. Ancora nel 2015, la produzione mondiale di olio di palma, nella logica dei grandi numeri, è stata calcolata in milioni e milioni di tonnellate. Una invasione esagerata da correlare con l’altrettanto esagerata aggressione alla natura e all’ambiente. Capito perché – al netto degli scopi pubblicitari (a pensar male si fa peccato, però …) – su alcune confezioni, affidate, in bella e accattivante mostra, agli sfavillanti scaffali dei supermercati, c’è scritto: Senza olio di palma ?
Quanto sopra, per dimostrare che c’è chi violenta la natura. Ma, c’è pure chi coarta le persone. Prendiamo ad esempio gli istituti carcerari in Italia. Di tanto in tanto, negli ambienti politici, si riaccende il dibattito sul trattamento poco umano, causato in primis dal sovraffollamento. Come a livello internazionale si discute dei malanni ambientali del Pianeta, senza poi adottare conseguenti e opportune soluzioni, allo stesso modo, nel nostro Paese, viene trattato il problema delle carceri. Discuti, discuti, la situazione di arretratezza è chiara e lampante, ma i correttivi non arrivano.
Si invocano i principi costituzionali, si sottolinea l’emergenza, poi tutto resta come prima. Con l’aggravante del costo altissimo, tale da essere paragonato ad alberghi di classe media. Una volta si chiamavano patrie galere, poi abbiamo cambiato il nome nel più elegante “case circondariali”, senza mutare, in maniera sostanziale, il regime carcerario. Sovente al carente trattamento istituzionale, si associa il clima di sopruso interno, generato dalle prevaricazioni dei soggetti più aggressivi. Ne deriva l’alto indice di suicidi e atti autolesivi, spesso sottaciuti. In tal modo, le carceri sono diventare la “discarica” dei bassi strati sociali. Così non va affatto bene e non fa onore all’Italia. C’è poi la cronaca nera che generalizza i giudizi e alimenta il risentimento dell’opinione pubblica verso gli autori di gravi delitti; quindi il problema, di sicuro, rimarrà ancora a lungo irrisolto e lontano dai canoni dell’umana convivenza. Perché tutti hanno diritto ad un trattamento umanitario, consono almeno alle elementari norme di civiltà. Soprattutto in un Paese dove l’uso della carcerazione preventiva resta su limiti eccessivi e l’utilizzo delle misure alternative non è ancora entrata appieno nel costume giudiziario. Così le storie penose e sepolte dietro le sbarre finiscono per appartenere ad un mondo minore, secondario, residuale.