La Valnerina, il Museo delle Mummie, S. Pietro in Valle e S. Eutizio
di Adriano Marinensi
La crescente attrazione della Cascata delle Marmore verso i forestieri, ha ispirato una idea di sviluppo turistico che – posta al centro la spettacolare caduta d’acqua – allarghi l’offerta e coinvolga altre opportunità di rilievo, in Valnerina e non solo. Opportunità ambientali, storiche e sportive. Per trasformare, si è detto, l’escursionista fugace in visitatore, interessandolo ad un soggiorno plurimo orientato. Tra i Municipi coinvolti c’è anche Ferentillo ,ubicato nel primo tratto della bella Valle umbra. Che può mettere a disposizione il suo singolare Museo delle Mummie.
Si trova ad una dozzina di chilometri da Terni e quindi, nella buona stagione, potrebbe essere, anche per i ternani, la meta di una domenicale gita fuoriporta. C’è dunque la Valnerina che, per dirla con Alfredo Oriani, “mena attraverso vaghe contrade, ai primi colli dell’Appennino”. Sono tanti, lungo l’itinerario che sorpassa il matrimonio splendente tra il Velino che si getta dall’alto e la Nera che, in basso, scorre placida; sono tanti i borghi antichi di rilevanza turistica, che meritano conoscenza, posti a fare da sentinelle all’identità del territorio.
Le pietre parlanti dei piccoli paesi, i cieli stellati, altrove oscurati dalle luci sofisticate che li oscurano in città. Sopra quei bassi colli, verdi di ulivi e di boschi, s’odono ancora racconti ed usanze di un vivere autentico, vigile perché la modernità non rubi il passato, la memoria, i valori della storia e dello spirito. Ci sono le comunità che sanno di umano, forti e pazienti, e il paesaggio intatto a rendere onore alla natura, talvolta fatta come fu creata. A Ferentillo, il paese diviso in due parti dal fiume, dentro una grotta, sotto la Chiesa di S. Stefano, si può fare un incontro inusuale con alcuni testimoni dell’al di là.
Le Mummie appunto che, all’ingresso – con la loro saggezza quasi pietrificata – ti avvertono solenni: “Noi eravamo come voi siete, voi sarete come noi siamo” (spesso si sente, tra i visitatori, grat, grat, grat). Alcune di loro stanno in piedi, dentro le teche di vetro, conservate, si dice, dagli “effetti speciali” dell’antro dove trovano l’ultima dimora. Seppure le Mummie siano prerogativa dell’antico Egitto, Ferentillo ne mostra alcune che si sono imbalsamate da sole, senza bendaggi e pomate conservanti. Lo sguardo immaginato è quasi terreno, il sembiante ridotto all’osso, esteriormente incannucciato.
Secondo la narrazione orale, c’è il gobbo Severino, insieme all’avvocato morto di coltello, i coniugi cinesi uccisi dal colera, il soldato napoleonico finito sul patibolo, la puerpera defunta durante il parto. Allineati e sovrapposti, quasi una mostra al passato remoto, il gran numero di teschi dalle occhiaie cave, una mia definizione dell’immagine di morte che piacque molto al professore d’italiano. E mi valse un ottimo voto sul tema in classe.
Pare, quei corpi, successivamente pietrificati, siano stati tratti dalle originarie sepolture, poste sotto le Chiese, quando il Bonaparte emise l’Editto di Saint Cloud, con l’ordine di esumare i morti e spostarli altrove, nei camposanti con tumuli tutti uguali, in ossequio all’egalité. Furono vive le proteste, compresa quella di Ugo Foscolo, espressa nella poesia Dei Sepolcri. Dice:“All’ombra dei cipressi e dentro l’urne, confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro?” E’ l’interrogativo esistenziale al quale si lega il mistero del trapasso, imperscrutabile e, per chi non crede, senza speranza alcuna. Comunque sia, il Museo delle Mummie sollecita il pensiero, la riflessione, la curiosità.
Si è fatta l’ora di riprendere il cammino che, oltre a quei trapassati remoti, ci ha fatto sostare ammirati di fronte alla Cascata, ci ha fatto fare un salto ad Arrone, abbiamo visto da lontano Montefranco, Collestatte, Torreorsina, Casteldilago che guardano il fiume e quanto di bello esiste oltre le sue sponde. Ci aspetta l’Abbazia di S. Pietro in Valle, alle pendici del Monte Solenne. Storia e leggenda insieme animano il racconto del suo tragitto secolare. Pare l’abbia fondata, nell’VIII secolo d.C., il longobardo Duca di Spoleto Faroaldo II°.
La “biografia” aggiunge che al Duca era apparso in sogno proprio S. Pietro che, in remissione dei tanti peccati commessi, lo sollecitò a fondare quel luogo sacro, “pro rimedio animae”. Lui fece erigere il cenobio e, quando il figlio suo Trasamondo lo depose dal trono, a S. Pietro in Valle si rifugiò, morì e fu sepolto. Nella Chiesa vi sono interessanti affreschi di pittori umbri in contrasto con l’arte bizantina dominante. Immagini del Vecchio Testamento, dalla separazione della luce dalle tenebre alla costruzione dell’Arca di Noè, la nascita e la vita di Gesù. E alcuni sarcofagi di epoca romana.
Volendo si può allungare il tragitto sino all’Abbazia di S. Eutizio, nella Valle Castoriana,in Comune di Preci. E’ un complesso monumentale importante del monachesimo prebenedettino, tra i più antichi d’Italia. Nel territorio, si insediarono, durante il quinto secolo, numerosi monaci ed eremiti siriani; dettero vita ad una comunità, all’inizio alloggiata nelle grotte scavate nel tufo, poi cominciarono a costruire l’Abbazia, tra la valle e la scogliera. Vi ebbero accoglienza S. Benedetto e S. Francesco. Gravi danni ha causato il terremoto del 2016. Per quanto ammirato e per le riflessioni sollecitate da ciò che abbiamo visto, il tempo è stato fugace. Una giornata tra ambiente, paesaggio e storia che ha reso intelligente la gita fuoriporta.
Fatemi chiudere con l’ennesimo fuori testo. Che, per un po’, sa di nostalgia. Il 29 maggio, la Chiesa cattolica celebra la solennità liturgica dell’Ascensione che rientra nei riti della Pasqua e fa memoria del ritorno del Cristo alla Casa celeste. Dopo il miracolo del Gesù che vince la morte, l’altro prodigio del Gesù che ribadisce il senso della sua divinità. Il Salvatore torna nella dimensione divina, sale al cielo e siede alla destra del Padre, come recita il Credo Apostolico.
Sin qui, in estrema sintesi, la parte sacra della festività. E i focaracci dell’Ascensione? A Terni, quando fui fanciullo, nelle zone contadine di periferia, erano una delle espressioni laiche della consuetudine secolare, legata a quella religiosa. Il giorno prima, s’andava in giro, grandi e piccini, a cercar legna da ardere. Poi, sull’aia di un casolare oppure in luogo appartato si costruiva una catasta grande. Quando la notte s’era fatta buia, si accendeva il fuoco ad illuminare la scena gremita di allegrezza. Attorno, sui colli, centinaia di fiammelle lontane manifestavano la speranza che viene dalla fede. L’Ascensione di tutti. E le ragazze da marito saltavano l’ultima brace, come buon auspicio per il matrimonio. Si diceva, con quasi certezza, entro l’anno venturo.