di Adriano Marinensi – A Roma, la Magliana dà nome a tre cose: un “fiumetto”, un quartiere (dalle parti del Portuense) e una banda criminale. Il corso d’acqua non ha biografia perché è poco più di una “marana”; il quartiere è uno degli esempi di speculazione edilizia dei quali è ricca la capitale (adesso vogliono aggiungerci la “rapina edilizia” del nuovo stadio di Tor di Valle); la banda invece offre una storia da romanzo. Lo scrisse il giudice Giancarlo De Cataldo (“Romanzo criminale”, appunto) e la T.V. ci ha realizzato un serial di successo. La vicenda complessa e spettacolare, al limite dell’incredibile, è quella di un numeroso gruppo di fuorilegge che s’erano messi in testa di monopolizzare gran parte delle attività sporche, a Roma. E infatti, a Roma, dalla metà degli anni ’70 del ‘900 in avanti, operò un clan di veri e propri gangster, dediti agli omicidi, ai sequestri di persona, alle estorsioni, alle rapine, al controllo del gioco d’azzardo ed altri delitti di pari valenza. Cercarono contatti e collaborazioni con la camorra, la mafia, i Servizi segreti e persino la politica. Insomma, una agguerrita e ramificata associazione per delinquere, all’occorrenza persino feroce.
Ebbero parte addirittura – anche se non del tutto chiarita – con l’assassinio di Aldo Moro, fatto ritrovare, dalle B.R., dentro la famosa Renault 4, in Via Caetani, a Roma (9 maggio 1978); l’attentato a Giovanni Paolo II (13 maggio 1981); l’omicidio del banchiere Roberto Calvi, rinvenuto appeso sotto il Ponte dei Frati neri, a Londra (17 giugno 1982); la scomparsa di Emanuela Orlandi (22 giugno 1983). Prima della banda della Magliana, aveva operato, tra Roma e Parigi, il clan dei Marsigliesi, detto anche il clan dei ”Tre B” dal nome dei suoi caporioni: Bergamelli, Berenguer e Bellicini. Fecero fare un salto in alto alla delinquenza romana di borgata. Il sequestro a scopo di estorsione fu la loro specialità. Uno assai famoso ebbe per vittima Gianni Bulgari, erede della omonima gioielleria. Lo prelevarono tre uomini armati in mezzo al traffico, una sera di marzo del 1975. Lo rilasciarono dopo un mese, dietro pagamento di un riscatto miliardario. Quando, nel 1976, i Marsigliesi furono sgominati dalla Polizia, i loro metodi li ereditarono i Romani.
Si misero insieme alcuni boss di quartiere, sicuri che l’unione avrebbe fatto la forza. Furono seguiti pure dalle loro “truppe” sino ad arrivare ad oltre 50 affiliati di notevole peso canagliesco, tutti poi indicati con nome e cognome durante i successivi processi. Un bell’esercito che, per alcuni anni, ha spadroneggiato in mezza capitale. Cominciarono sequestrando un Conte (novembre 1977). Aveva un nome altisonante: Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Per tentare di riaverlo, la famiglia versò un sontuoso malloppo: un miliardo e mezzo di lire. Non servì a nulla. L’ostaggio aveva visto in faccia uno dei carcerieri e allora decisero di eliminarlo.
Ad elencare tutte le azioni da briganti degli uomini della Magliana, ci vorrebbe un giornale intero. Toccherà andare per esempi. All’ippodromo di Tor di Valle operava il re delle scommesse clandestine: Franco Nicolini, detto Franchino. Durante un periodo di soggiorno nelle patrie galere, Franchino prese a schiaffi Nicolino Selis, esponente di spicco della banda della Magliana. Una offesa imperdonabile. Appena tornato in libertà (1978), gli spararono nove revolverate. Una certa famiglia Proietti, fratelli, nipoti, congiunti e affini, aveva costituito anch’essa una agguerrita gang. A Trastevere (1980), i Proietti fecero fuori Franco Giuseppucci, uno dei leader della Magliana. La vendetta colpì severa sotto forma di ferimenti ed assassini.
Tenne banco sulla stampa nazionale, l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, avvenuto a Roma, nel marzo 1979. In un documento agli atti del Senato, si legge: “La tesi accusatoria nel processo (tenutosi a Perugia nel 1997) sosteneva che il delitto sarebbe stato deciso dal Senatore Andreotti, il quale, attraverso l’on. Claudio Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Salvo (siciliani) l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti (grandi mafiosi) che avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci (della Magliana) di organizzare il delitto, eseguito da Massimo Carminati” (all’epoca braccio operativo dei NAR e oggi coinvolto, a pieno titolo, nell’ inchiesta Roma Capitale). Con tutti questi verbi al condizionale (sarebbe, avrebbe, avrebbero…) la Cassazione non ritenne sufficienti le prove.
L’eliminazione di Giuseppucci per mano dei Proietti, mise in moto alcune rivalità all’interno della banda. Di fatto, s’erano creati due gruppi dominanti, i Testaccini e gli altri della Magliana. Ebbe inizio un forte contrasto che vide coinvolti boss del calibro di Danilo Abbruciati, Enrico De Pedis e Maurizio Abbatino. Rinchiuso in un manicomio giudiziario, stava Nicolino Selis, altro “socio fondatore” che, pur ristretto, pretendeva di partecipare agli utili delle malefatte. Nel 1981, uscì in permesso dall’istituto carcerario e i suoi sodali lo uccisero, attirandolo in un tranello. Altro omicidio interno alla banda fu quello di Domenico Balducci, detto “er cravattaro”, in quanto prestava quattrini a strozzo. Aveva un negozietto di elettrodomestici e fuori era affisso un cartello: “Qui si vendono soldi”. Gestiva il racket dell’usura per conto del mafioso Pippo Calò. Il cravattaro fece la cresta sui guadagni e Calò inviò Abbruciati e De Pedis ad eliminarlo.
Danilo Abbruciati – inviato a Milano per attentare alla vita di Roberto Rosone, Vice presidente del Banco Ambrosiano, che faceva da ostacolo a taluni maneggi – lo uccise una guardia giurata. Renato De Pedis si mise in dissapore con il suo “pari grado” Edoardo Toscano. Per toglierselo dai piedi mandò a sparargli due sicari, tali Ciletto e Rufetto, che eseguirono a dovere l’incarico. Manco un anno dopo, i seguaci di Toscano compirono la nemesi. E Renatino finì ammazzato pure lui. Lo ritroveranno, molto più tardi, tumulato segretamente – chissà per quale benemerenza – in una cripta, della Basilica di S. Apollinare, in Roma. La “soffiata” era giunta attraverso una telefonata anonima alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, mentre di discuteva del rapimento Orlandi.
Per anni, le imprese di questa banda di birbaccioni misero sottosopra la capitale. Un potere malavitoso d’eccezione che aveva agganci in diversi ambienti e riuscì a manovrare una montagna di denaro. Poi, a decretarne la crisi, venne il momento degli arresti, delle confessioni, dei processi e delle condanne a diversi ergastoli e lunghe pene detentive, per decine e decine di quei banditi. Senza però riuscire ad azzerare completamente l’impianto criminale. Le ultime propaggini sono state addirittura eliminate all’inizio del 2016. Con la banda della Magliana è stato scritto un capitolo torbido della storia di Roma e d’Italia, reso anche possibile dalla rete di intrighi, complicità, fiancheggiamenti, agganci istituzionali, connivenze, tessuta in ambienti di rilievo. Una storiaccia, proprio da “Romanzo criminale”, piena di coni d’ombra di difficile interpretazione.