Il 26 aprile 1986, a Chernobyl, in Ucraina, esplose la centrale nucleare
di Adriano Marinensi
Avvenne in primavera, d’aprile, il 26 di 37 anni fa, in Ucraina, allora facente parte (importante) dell’Unione Sovietica. Avevano costruito, vicino alla cittadina di Chernobyl, ad un centinaio di chilometri da Kiev, una centrale nucleare inserita nell’ambizioso programma di sviluppo incentrato sull’energia elettrica derivante dall’atomo. Al Cremlino c’era Michail Gorbacev, alla Casa Bianca Ronald Reagan. Nella centrale, quell’oggi del 1986, il quarto reattore dell’impianto esplose, provocando – al pari di Fukushima, in Giappone (2011) – un evento classificato al massimo della scala catastrofica che misura gli incidenti nucleari in tempo di pace.
Avevano programmato un test di sicurezza sul reattore n.4, l’ultimo costruito. Volevano controllare cosa sarebbe potuto accadere nel caso di interruzione dell’energia elettrica che faceva funzionare il sistema di raffreddamento delle barre. Ma qualcosa andò storto. A fare il botto, che distrusse il reattore, furono i vapori surriscaldati ad altissima pressione e il gas xeno sprigionatosi all’interno di esso. Il coperchio di acciaio e cemento, pesante 1.000 (mille) tonnellate, saltò in aria e ricadde, frantumando il nocciolo, espulso dal recipiente che lo conteneva. Insomma, nella parte dell’impianto interessata, restò una voragine e parte del materiale nucleare si sparse nell’atmosfera.
Il segreto imposto dal Cremlino
Un dissesto di tale entità non era previsto e gli interventi immediati furono non adeguati e soprattutto rischiosi. Impegno prevalente per le alte gerarchie sovietiche fu evitare fughe di notizie che recassero sfiducia ai piani prestabiliti. C’era però l’imperativo immediato di evacuare gli abitanti della piccola città costruita nei pressi, per ospitare i lavoratori della centrale e le loro famiglie. Fu messo in azione il loro trasferimento e degli altri, con centinaia di automezzi militari.
Una enorme nube, fortemente tossica perché radioattiva, si formò in cielo e il vento, nei giorni successivi, la spinse verso i cieli dell’Europa. Anche in Italia il panico divenne dilagante. Ci proibirono di mangiare (passatemi l’espressione) i cavoli a merenda, i prodotti dell’orto a foglia larga e il latte munto da pecore e mucche al pascolo dopo il pasticciaccio brutto di Chernobyl. E le madri che lavavano i capelli ai propri figli nel timore che il pulviscolo, invisibile e letale, cadesse loro in testa. D’altronde, non si trattava della nuvola dell’impiegato inventata dal rag. Fantozzi – Villaggio, quanto invece di un terribile lupo mannaro.
I grandi numeri dell’apocalisse
Le conseguenze, nei territori attorno, contaminati per chilometri, furono da grandi numeri: nel breve termine, l’ONU disse 4.000 morti e il servizio segreto sovietico (KGB) 3.500; gli sfollati 116.000. A distanza di venti anni, il conto della mortalità, a seguito delle radiazioni, ha toccato il milione di persone. Pure disastrose le incidenze sull’ambiente, con danni irreparabili per chissà quante future generazioni.
Sopra il reattore distrutto, è stato costruito un sarcofago, risultato poi insicuro. La totale messa in sicurezza è avvenuta nel 2016 con la realizzazione del contenitore definitivo. Anch’esso caratterizzato da grandi numeri: 400 mila metri cubi di calcestruzzo e 7 mila tonnellate di carpenteria metallica. E’ destinato a tenere prigioniero, per 100 anni, nel carcere di massima sicurezza, un mostro formato da 200 tonnellate di corium radioattivo, 30 di polvere contaminata, 16 di uranio e plutonio. Una bomba atomica di ennesima potenza. Le dimensioni: Altezza m. 110 (17 più della Statua della Libertà), lunghezza m. 164, larghezza m. 257. Per un costo totale di un miliardo e mezzo di euro. L’impianto ha cessato l’attività nel dicembre del 2000. Va specificato che il corium è il materiale che si crea in un reattore a seguito della fusione del nocciolo.
La zona di esclusione intorno al gigante
Ora, la centrale e i palazzi costruiti per ospitare i lavoratori, stanno al centro di un cerchio avente un raggio di 30 chilometri, interdetto a qualsiasi accesso e destinato a rimanere deserto per secoli. Pare sia stato violato dai carri armati di Putin che hanno minacciosamente sollevato una notevole quantità di polveri letale. Questa è l’eredità, di sicuro incompleta, lasciataci dal cataclisma accaduto 37 anni fa, che sconvolse, in Italia, ogni idea di produrre energia dall’atomo ed ebbe influenza sui 3 referendum abrogativi del 1987. Ci sono ancora oggi, in giro per la nostra penisola, materiali corrotti, rimasti dopo la chiusura delle centrali di Garigliano, Trino Vercellese, Latina, Caorso e pure altrove. In tanto tempo, non siamo ancora riusciti ad individuare un sito idoneo per la costruzione del deposito unico nazionale.
Postilla pallonara di vivace attualità. Domenica scorsa, la Ternana calcio è stata sconfitta (anzi abbattuta) in casa dal Venezia, squadra nient’affatto adusa a grandi imprese: ha rifilato agli eroi locali della sfera presa a zampate, quattro pappine da vergognarsi. Compagine bizzarra quella rosso – verde, una settimana accreditata nella zona promozione e l’altra screditata (termine prettamente sportivo) come prossima all’area retrocessione. Su e giù, dagli altari alla polvere, dal Manzanarre al Reno. Per i sostenitori, una vita sopra le montagne russe. Ora, per quanto riguarda la “umoristica” figura rimediata giorni addietro, la parola al patron Bandecchi. Anzi, la parolaccia.
Il (cattivo) pensiero dal sen fuggito
Riguarda Giorgia e l’album fotografico che io proseguo ad impinguarecon le sue immagini tratte dal quotidiano indipendente (?), più volte citato in mie precedenti “osservazioni”. Il solito titolone sopra, con Meloni in tutta evidenza, la dagherrotipia sotto, in formato spesso gigante, l’ampio articolo a riempire la pagina. Ed a ribadire l’idea che l’informatore del quale trattasi, sia diventato l’organo ufficiale di Fratelli d’Italia. Comunque, contento lui, il Signor Direttore … (forse un po’ meno i lettori veramente indipendenti).