Sopravvissero 72 giorni tra i ghiacci e le nevi delle Ande
di Adriano Marinensi
La Vigilia del Natale appena vissuto, hanno fatto 51 anni dalla conclusione della vicenda quasi assurda, forse miracolosa, che ebbe per protagonisti i superstiti di un incidente aereo accaduto alla sommità della Cordigliera delle Ande. Occorre ricordare che la Cordigliera andina è la barriera montuosa più estesa e arcigna della Terra. Un mostro che si estende per 7.000 chilometri nell’America meridionale. Inizia in Venezuela e finisce in Cile, dopo aver attraversato Columbia, Ecuador, Perù, Bolivia e Argentina. La cima più alta è l’Aconcagua, quasi 7.000 metri s.l.m.
Era il 13 ottobre 1972 e un piccolo aereo con motore ad elica stava sorvolando il mostro, lungo una rotta frastagliata e battuta dal perenne maltempo. Partito da Montevideo in Uruguay, trasportava una squadra di rugby e gli accompagnatori, a Santiago del Cile. A bordo 40 passeggeri e 5 uomini di equipaggio. Ad un certo punto del volo, per un errore di calcolo dei piloti, l’aereo va a sbattere contro una parete rocciosa, alla quota intorno ai 4.000 metri, in un paesaggio fatto solo di neve, ghiaccio e tanti gradi sotto zero. In un luogo che prefigurava la tragedia: Si chiamava Valle delle lacrime.
Per i fortunati superstiti (35, alcuni feriti in cattive condizioni) comincia una avventura che sa dell’incredibile. La carlinga dell’aereo è in grado di ospitarli e difenderli, seppure parzialmente, dal freddo che lassù, di notte, scende intorno a meno 30. Undici giorni dopo, all’incidente aereo, se ne aggiunge un altro: La enorme valanga che si abbatte sulla carlinga e uccide otto persone. Passano molti giorni e nel rifugio si continua a vivere in modo precario ed ancora a morire. Ad un certo punto, i viveri cominciano a scarseggiare. E’ allora che si verifica un fatto innaturale.
I morituri (i gladiatori nel Colosseo) lasciano una sorta di macabro testamento: Le loro carni in pasto agli affamati compagni di sventura. Una eredità che dovette essere accettata, trasformando l’amico fraterno in antropofago. Insomma “più che l’amicizia potè il digiuno”, come per il Conte Ugolino di dantesca memoria. Una sopravvivenza cannibalesca, scelta lacerante, ogni sentimento di ripulsa, materiale e morale, rimosso. Perché i giorni erano passati veloci, tormentati e impietosi. E la morte, per tutti, ormai aleggiava intorno al deserto bianco. Le condizioni disperanti, i sentimenti di terrore, le frustrazioni di quel plotone di ragazzi, il più vecchio 38 anni, il più giovane 18, gli altri poco più di 20. Tutti con una lunga speranza di vita futura e nessuna al presente.
Allora, l’ultimo tentativo: Cercare di rompere quella sorta di assedio con una sortita alla ricerca dei soccorsi. Erano rimasti in sedici e tre di loro si dissero disposti a raggiungere, a piedi, sulla neve, un improbabile centro abitato per chiedere aiuto. Progetto arduo, ma, dopo due mesi di esistenza pressoché senza scampo, parve la sola fede alla quale aggrapparsi. Dunque, partirono in tre. Uno portò con se una scarpetta rossa, giurando solennemente di tornare a riprendere l’altra. Erano il regalo di una madre per il figlioletto al ritorno. Scesero per alcuni giorni e si ritrovarono ancora in alta quota. I calcoli fatti apparvero errati. I viveri al massimo sufficienti per due: Il terzo dovette tornare indietro.
La storia ci dice che si chiamavano (gli intrepidi meritano una doverosa citazione) Roberto Canessa (19 anni) e Fernando Parrado (22). Vagarono ancora per molti giorni alla ormai pallida fiducia di raggiungere una qualunque comunità. Finché, la fortuna venne loro in aiuto. Incontrarono un paio di mandriani a cavallo che pascolavano un gregge di armenti, vicino ad un paese sperduto.
Mi pare di vederli, sul versante opposto del monte, i soccorritori – ammesso e non concesso (Totò) che ce ne fossero ancora dopo un paio di mesi dal disastro – salire senza affanno,tanto si trattava di trovare il luogo dov’erano sepolti nel ghiaccio i corpi delle 45 vittime.Lassù intanto, dentro la sconnessa carlinga, trasformata in abietto luogo di vita, la fidanza dei 14 stava agli sgoccioli. Il pensiero che i due compagni non ce l’avessero fatta, aumentava l’ambascia incontenibile.
Invece, l’ardimento e la forza d’animo straordinaria di Canessa e Parrado avevano vinto. Il giorno prima di Natale 1972, due elicotteri si levarono in volo e, seppure tra grandi difficoltà, riuscirono a prendere a bordo gli Eroi delle Ande, così chiamati dagli organi di informazione. Malandati, ridotti pelle e ossa, mezzi assiderati, però salvi da una avventura ben oltre i limiti dell’umana resistenza, 73 giorni nell’inferno della titanica montagna. Il mostro aveva avuto pietà soltanto di loro.
Tre film hanno raccontato l’incredibile storia dei 45 della Cordigliera: Alive, La società della neve, I sopravvissuti delle Ande. Nel 2008, il programma televisivo di Paolo Bonolis, Il senso della vita, ha raccolto la drammatica testimonianza di uno degli scampati al terribile dramma. Quattro anni dopo, l’America latina ebbe a che fare con altri voli della morte, però non voluti dal destino, come quello delle Ande, ma dalla ferocia dei dittatori militari al potere: i dissidenti, gettati a migliaia da quegli aerei, li chiamarono desaparecidos.
Pensiero eteroclito e un po’ vanesio
Non occorreva ch’io fossi un profeta, quando scrissi (22 dicembre u.s.) l’articolo intitolato: Il conflitto sul Mar Rosso sarebbe un disastro per l’economia. Le concrete avvisaglie del disastro sono già arrivate. Ho letto, due giorni fa su Il Messaggero: “La tensione nel Mar Rosso – secondo uno studio dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) – sta portando al rialzo tutte le tariffe mercantili. L’incremento è del 25% rispetto alla stessa settimana dell’anno scorso. E’ previsto che i rincari si ripercuotano sui prezzi al consumo”. Anche le banche sono in fibrillazione. Ed è quasi certo che i petrolieri colgano l’occasione per spingere in su le quotazioni.
Il trasporto di un container (parola del Ministro Tajani) dal Mediterraneo alla Cina, costa oggi quattro volte di più rispetto ad un mese fa. Da Genova a Pechino, il dirottamento attraverso il Capo di Buona Speranza comporta un aumento dei tempo di viaggio dai 27 giorni di Suez a 44, da 9.900 miglia nautiche a 11.720. Il cambio di percorso avrà di certo pesanti impatti sui principali porti italiani. C’è grande allarme pure nel settore produttivo dell’acciaio. E l’AST, a Terni, è una Acciaieria. Occorre cominciare a preoccuparsi pure in Umbria.