Ieri sera ci siamo potuti godere la seconda delle emissioni, perdendoci la prima che era stata intitolata “Frames” ed era stata dedicata ai rapporti tra musica e pellicola cinematografica
Si aspetta sempre con attenzione l’appuntamento con i ragazzi di Opifico Sonoro, il collettivo strumentale che, sotto l’impulso di Marco Momi, rappresenta l’avamposto più avanzato di quanto gli Amici della Musica fanno da sempre a favore della musica dei nostri giorni. Da questi bravissimi musicisti perugini ci si aspetta ogni volta una bella manciata di novità: peccato che l’accostamento degli appuntamenti in due serate consecutive renda non sempre facile la fruizione del pacchetto complessivo. Ieri sera ci siamo potuti godere la seconda delle emissioni, perdendoci la prima che era stata intitolata “Frames” ed era stata dedicata ai rapporti tra musica e pellicola cinematografica.
Nella bella sala borrominiana, in effetti usata in anni passati come sala cinematografica quando si andava a vedere le pellicole di Walt Disney nei doposcuola di padre Alvaro, il secondo appuntamento era stato indicato come “Micro-Macro” con riferimento alla prospettiva quasi minimizzata delle presenza strumentali, quattro solisti che hanno firmato un polittico di estremo interesse., soprattutto per la vasta gamma di timbricità adottata.
Collocare la musica dei nostri momenti in un ambiente architettonico così prezioso e tanto storicamente accertato stabilisce le coordinate estremamente originali di una ricettività che si lega a una proposta di sonorità estremizzate che vengono assorbite dal velo del tempo che le circonda con la rassicurante certezza della loro precisa storicizzazione. Con Opificio Sonoro ci si sente nella attualità più pungente, ma la euritmia delle volte, delle balaustre e delle cupole dell’Oratorio ristabilisce l’equilibrio assicurato dalla sponda del tempo che non varia a seconda di ogni sollecitazione a cui venga sottoposto.
E questo valeva anche per il pezzo di esordio che ha visto gli ascoltatori praticamente aggrediti dalla clarinettista Raffaella Palumbo che si è prodotta in un dei più provocatori scontri tra pubblico e musicista, il celebre, per quanto misconosciuto “Der leine Harlekin” di Karlheinz Stockhausen, una azione coreografica con cui lo strumentista, che non cessa mai di soffiare sul tubo, deve prodursi contemporaneamente in una ridda di mimica, danze, piroette, contorsioni e smorfie. Avvolta da una guaina rossa e nera, viso dipinto e occhi cerchiati, Raffaella per oltre venti minuti ha suonato a perdifiato uno spartito interamente memorizzato, saltando da un lembo all’altro di cosa le tracciava nello spazio il riflettore. Jolly boschivo, acrobata giocoso, folletto e trottola come compete a una maschera, Arlecchino che veniva dalla mitologia franco-normanna dove si caratterizzava come conduttore delle anime dei morti.
Quando lo presentò al pubblico nel 1975 Stockhausen prevedeva anche grida di uccello e, citiamo letteralmente, una serie di “peti” da sganciare in faccia al pubblico: le indicazioni era di “petare” tra le gambe e di pulire il clarinetto con un fazzoletto. Ora la scatenata musicista ci ha risparmiato l’oltraggio, ma ci ha tenuto col fiato sospeso muovendosi come una forsennata senza mai lasciare l’imboccatura dell’ancia. Prestazione sbalorditiva che merita ogni elogio. Nel secondo numero della serata che ormai si era accesa nella maniera prevedibile, il serioso pianista italo-olandese Erik Bertsch si è seduto al pianoforte per proporre una successione di “Miniature estrose” di Marco Stroppa. Bei musicisti, autore ed esecutore, impiegati in una stesura dinamicamente fremente di quei capolettera che ornavano i codici miniati medievali e sono la gioia di storici dell’arte e antiquari. A leggerli bene questi piccoli capolavori della scrittura antica spesso manifestano volti infermali o bestiali e le musica di Stroppa, dure e pura come compete a un compositore anni Cinquanta, è stata aspre e provocante, per concedersi un relativo rilassamento solo nella conclusiva “Ninnananna”.
Amiamo molto questa musica che non faceva sconti ai sussulti e alle intimidazioni e ci teneva col fiato sospeso fino all’esplosione dell’accordo seguente. In “Ko-Tha” di Giacinto Scelsi si è rinnovata la empia provocazione di quanti sanno della mistificazione che sta dietro questo nome e alla sua relativa divulgazione. A chiunque sia ascrivibile la stesura la ideazione è comunque geniale: una chitarra adagiata su un supporto e la bravissima Laura Mancini, percussionista provetta, a batterci sopra concedendosi solo qualche grattata di corda. Praticamente veniva suonato o meglio battuto il pianale con una serie di ritmiche che alla fine non concludevano nessuna immagine sonora. Ma forse questo era lo scopo. Chiusura con un pezzo decisamente troppo lungo, ma molto stimolante, con la chitarra elettrica di Francesco Palmieri sottoposta a una gorgogliante sollecitazione di microfoni e di diffusori acustici. Pierluigi Billone ha voluto intitolare questi pezzo “Sgorgo Y” e forse intendeva riferirsi proprio al risucchio che si produce in un lavandino quando vi si versa l’acido sturatutto.
Suono del quotidiano e della compresenza di cose, oggetti e suppellettili della nostra vita. Le sonorità, comunque, erano veramente suggestive e potevano suggerire un vortice oscuro che ci trascina agli Inferi. Applausi di sincera partecipazione e molta curiosità per la sessione di primavera che Momi ha voluto anticipare: tecnologia di televisione e sale multi schermo.
Stefano Ragni