Di Adriano Marinesi – Da poco tempo erano terminati i lavori di ripavimentazione di alcune vie del centro di Terni (due o tre lustri orsono) e già una delle migliaia di “mattonelle” di ottima qualità, messe a dimora, si ruppe. Accadde in Via Garibaldi pressappoco all’altezza del numero civico 65.
Era del tutto ovvio il semplice intervento di ripristino con un altro rettangolino di porfido tal quale. Invece no. Si provvide con il catrame.
Fu un atto manutentivo maldestro, a dir poco. Scrissi una breve nota sull’argomento della posa della prima toppa, sotto il titolo “il ballo delle mattonelle”. Prima toppa e non ultima, perché, dopo Via Garibaldi, è toccato al Corso Tacito (detto il salotto dello struscio) e a tutte le altre strade interessate dai lavori in oggetto. La mia nota porta la data del 22 aprile 2008 e da quel giorno in avanti gli interventi al catrame hanno trasformato l’ “ammattonato” di pregio in una arlecchinata. Evidentemente, nella sensibilità estetica dell’ufficio comunale (in)competente, arredo urbano vuol dire anche catrame al posto delle mattonelle.
Citai Carsulae come uno dei parchi archeologici più importanti dell’Umbria e la Via Flaminia, che ci passa in mezzo, iniziata a costruire da Gaio Flaminio, nel 220 a.C. Era lastricata di pietre, “sopra le quali, per secoli, passarono le usuranti ruote dei carri romani, cerchiate di duro ferro”. Al trascorre delle ruote gommate dei ternani moderni, le mattonelle hanno resistito appena il tempo di mezza generazione. Eppure, stiamo parlando di un’ottima operazione amministrativa e di una parte della città avente interesse storico. Con l’impiego di un bel po’ di quattrini. Mi chiesi allora e l’interrogativo vale ancora al presente: “Soldi spesi o sprecati?” Non sarebbe peregrino quindi “interrogare” il signor Sindaco per conoscere le ragioni che hanno determinato lo sfascio della pavimentazione e la ignobile sostituzione a colpi di catrame.
Altra data di riferimento e un altro mio “pezzullo di cronaca”: novembre 2007. Titolo: “Cellule staminali, la nuova sfida”. Argomento, un importante Convegno promosso dalla Associazione per Terni Città universitaria, allora guidata, con impegno, da Nicola Molè e da Ciano Ricci Feliziani. In cattedra scienziati di chiara fama: Angelo Vescovi, Alberto Redi, Giulio Maira, Ignazio Marino. A fare da punto di attenzione in mezzo al dibattito, il Centro ricerche sulle staminali che Terni aveva cominciato a realizzare nei primi anni 2000. Annotai fiducioso: “Ormai l’operazione non si può arrestare. Anzi, è destinata a diventare una realtà d’avanguardia, di alto profilo scientifico e culturale”. Il convincimento poggiava sull’autorevolezza del Convegno e sulle garanzie offerte dai promotori del Centro: il Comune di Terni, la Diocesi di Terni, Narni e Amelia (rappresentata dall’Arcivescovo Vincenzo Paglia), la CARIT, la Camera di commercio. E soprattutto l’alta competenza dell’esimio professor Vescovi.
Sul tema, a livello nazionale, esistevano differenti correnti di pensiero, con particolare riferimento all’utilizzo degli embrioni. Mi permisi di osservare: “La ricerca (sulle staminali) rappresenta una decisione ineludibile. Aiutare il progresso del sapere è doveroso da parte di tutti. Anche se porte aperte alla ricerca non vuol dire libertà senza morale. Lo scienziato è chiamato ad agire in un contesto di valori che a nessuno è consentito archiviare”. Voleva essere la mia una modesta valutazione tendente ad evitare qualche ostacolo che s’andava profilando sul cammino del Centro ed arrivare rapidamente al traguardo. Si discuteva, e se ne parlò al Convegno di Terni, del destino degli embrioni derivati da procreazione assistita e non più impiantabili, molto utili alla ricerca. Poterli utilizzare avrebbe consentito il prelievo delle cellule ancora vive da un embrione morto.
Manco a dirlo, il Convegno si attestò su un livello di rilevante specializzazione. Fu pure momento di impegno per il concreto procedere d’ogni lavoro riguardante il Centro ricerca di Terni. Poi, le maglie della tela, cominciata a tessere ad inizio secolo, si sono allentate. Si ha l’impressione che il tema non sia più tra le priorità della programmazione locale. Di tanto in tanto, qualcuno diffonde notizie al cloroformio, però – dice un proverbio ternano (scusatemi la citazione, in sottotono rispetto al problema): la cera si consuma e il morto non cammina. Personalmente ci ho creduto all’inizio e continuo ad avere fiducia nelle promesse fatte da fonti autorevoli. Spesso però le promesse si trasformano in bugie vestite con l’abito da sera. E allora, come mi è capitato di concludere altra volta, in riferimento a qualche “annoso” problema ternano, si può scrivere (con rammarico) che se si fosse trattato di una lettera – anziché di uno strategico strumento di sviluppo Il Centro ricerche sulle staminali, appunti) – saremmo ancora a “Carissimo amico …”
Il terzo articolo del quale vorrei far cenno, di tutt’altra caratura e soggetto, non è farina del mio sacco, ma della penna puntuale del giornalista Mario Ajello. Lo ha scritto qualche giorno fa e intitolato: “I guardoni del turismo horror”. Da inviato sui luoghi del terremoto, è riuscito a cogliere e stigmatizzare un gaglioffo fenomeno di degrado intellettuale. Nella prima domenica dopo la tragedia, sono arrivati, in gita turistica, squallidi personaggi in cerca di emozioni e di immagini scattate tra le macerie. Per lo più abbigliati come pagliacci da circo e a bordo di motociclette di grossa cilindrata. Gli altri, di opposta caratura morale, giunti anch’essi in moto, che stanno tentando di dare sollievo al dolore, li avversano, chiamandoli i “diavoli del terremoto”. Destano un sussulto di indignazione e di ripulsa. “Guardoni dell’orrore – ha scritto Ajello – capaci di intrufolarsi nelle cucine sfondate e nelle dimore abbandonate, per godersi lo spettacolo della tristezza altrui”. Oppure – ancora Ajello – “per scattare qualche selfie vicino alla brandina e insieme ad una nonna che ha perso i nipoti, per far circolare la foto sui social network, vantandosi con gli amici: “Uno sballo questo posto, no?” Insomma – mi sia consentito di aggiungere – un turismo di stampo nazista, in scherno di ogni sentimento di misericordia.