di Adriano Marinensi – Ricorderemo a lungo e con immutato cordoglio, il “nostro” mese di agosto, per il cataclisma provocato dal terremoto che ha seminato lutti appena oltre il confine dell’Umbria. Ho vissuto il terrore delle bombe che il nemico faceva cadere dal cielo; ma, almeno la sirena ti avvisava del pericolo.
La natura invece, questa volta ancor più nemica, ha colpito di notte e senza alcun segnale. Un oceano di parole è stato speso soprattutto dagli organi di informazione televisiva ed io non ho adeguata statura per aggiungere verbo. Se non l’auspicio sincero che rapidamente, con i fatti, si renda giustizia a quanti si sino salvati e ai loro congiunti rimasti sotto le macerie.
Di un'altra terribile catastrofe vorrei scrivere, perché merita di non essere cancellata dalla memoria. Accadde anch’essa d’agosto, sessant’anni fa, in Belgio, dentro la miniera di carbone di Bois du Cazier, a due passi dal piccolo pause di Marcinelle. Un luogo che racconta l’ “incidente sul lavoro” nel quale persero la vita 262 minatori: 136 erano italiani. Oggi, quella miniera, da lungo tempo dismessa, è patrimonio dell’Unesco.
L’antefatto si ritrova in un “protocollo” firmato dai Governi dell’Italia e del Belgio, il 23 giugno 1946. Il nostro Paese e gli altri d’Europa, usciti devastati dalla guerra nazifascista, stavano cercando faticosamente di ricostruire il loro sistema produttivo. Una delle materie prime fondamentali era il carbone. L’Italia non ne possedeva, mentre aveva milioni di disoccupati. Il Belgio ne era ricco, mentre trovava difficoltà nel reperire la manodopera necessaria all’estrazione. Il “protocollo” mise a punto un accordo che prevedeva il trasferimento in Belgio di 50.000 italiani, di sana e robusta costituzione e di età inferiore ai 35 anni (poi elevati a 40), a gruppi di 2.000 la settimana; “in cambio della fornitura di un quantitativo di carbone – veniva specificato – tra i due e i tre milioni di tonnellate l’anno, a prezzo preferenziale”. In realtà, i nostri connazionali, nei pozzi della Vallonia, furono quasi 64.000. Nessun addestramento al lavoro, perché gran parte dei migranti non sapeva quale mestiere andava a fare.
Il Belgio si fece carico di alcune garanzie riguardanti l’alloggio, il salario, il vitto, le condizioni di lavoro. Condizioni di lavoro che però, nelle miniere, rappresentano l’abbrutimento non soltanto fisico. Soprattutto al tempo dei fatti. Un “Delegato all’ispezione”, nominato dal Governo italiano, avrebbe garantito il rispetto delle regole. I patti forse erano chiari, ma operare sottoterra, a profondità enormi (talvolta oltre i mille metri), lontani dalla luce del sole, tra pericoli, polvere fatica e sudore, alla lunga trasformava l’intero profilo umano del minatore. A Marcinelle, si operava in 3 turni di 8 ore, vincolati da un contratto minimo di un anno e il divieto di cambiare mestiere prima di aver trascorso almeno 5 anni in miniera. Nelle baraccopoli (ex dormitori dei prigionieri di guerra) si andava avanti tra rinunce e malinconie, aggravati dalle difficoltà sociali, di convivenza interna ed esterna. L’analfabetismo, ancora diffuso in Italia, precludeva i contatti con le famiglie lontane. Insomma, un campare difficile, duro, insalubre.
Il sito di Bois du Cazier era un giacimento sfruttato sin dal 1830. Quindi con attrezzature e matodi di scavo non all’avanguardia. Si lavorava con i carrellini su rotaie per movimentare il carbone e due ascensori montacarichi per ogni pozzo, adibiti al trasporto di materiali e minatori. L’unica protezione l’elmetto in testa come se andassero alla guerra e l’abbigliamento imbrattato al pari della faccia quando tornavano dalla “trincea” scavata giù fino all’abisso. Gli uomini – talpa operavano così. Così in Belgio, negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso; pressappoco così, ancora al presente, nei grandi giacimenti di carbone della Cina, dove stime non ufficiali, però attendibili, denunciano migliaia di vittime ogni anno.
I fatti tragici dell’8 agosto 1956, a Marcinelle, accaddero nel “pozzo uno” (in totale erano 5), tra il “livello 975” (metri di profondità) ed il “livello 765”. Ci fu una errata manovra degli ascensori, uno dei quali venne richiamato in superficie mentre due carrelli si trovavano ancora sporgenti dal piano di carico. Tranciarono i cavi elettrici, la conduttura dell’olio e il tubo dell’aria compressa, innescando l’incendio. Spinto dall’impianto di areazione, rimasto funzionante, il denso fumo raggiunse rapidamente ogni angolo della miniera. Apparve subito chiara la gravità della situazione e fu rapido l’intervento della “centrale di soccorso”. Attraverso un “passo d’uomo”, l’ingegnere della società riuscì ad accedere in prossimità del luogo ove s’era innescato l’incendio. Trovò per primo un cavallo morto e comunicò all’esterno che si trattava di “un pessimo presagio”. Voleva dire che per i minatori intrappolati dal fumo, la situazione andava considerata allarmante.
Numerosi furono i (vani) tentativi di raggiungere i sepolti vivi. Il grande dramma si concluse ufficialmente il 22 agosto, alle 3 di notte, quando uno dei soccorritori, risalito all’esterno, emise la sentenza: “Sono tutti morti”. Tutti significava 262 persone. Durante la prima fase della tragedia, il caposquadra del “livello 1035” aveva lasciato un messaggio scritto sopra una trave di legno: “Indietreggiamo per il fumo. Siamo circa 50”. Non si salvarono. L’assassino, questa volta, non era stato il grisù (il crudele gas di metano), autore di tanti incidenti in miniera. Si avviarono, con il senno di poi, le solite inchieste, al fine di “fare ogni luce” su quanto accaduto quel maledetto 8 di agosto, quando, alle 8,10 del mattino, scoppiò il finimondo. Poi, il processo, una fredda battaglia legale a colpi di perizie tecniche. In primo grado, i cinque imputati vennero assolti, mentre in Appello, uno soltanto ebbe la condanna a 6 mesi di reclusione con il beneficio della condizionale. L’iter giudiziario, complicato dai contrastanti interessi assicurativi, si concluse, nell’aprile 1964, tramite un accordo tra le parti in causa.
Un lutto senza precedenti aveva colpito il mondo del lavoro italiano. Che, nella fattispecie, era il mondo della povera gente, andato a cercare occupazione in un settore ove l’incerto e il rischio costituivano gli alleati della fatica, del degrado, di una esistenza disperante. Pagarono in tanti il prezzo di un massacro e pure l’assurdità di quel “protocollo” italo – belga che parve piuttosto un baratto. Seppure a più di mezzo secolo di distanza, è doveroso il ricordo, perché la memoria di quei caduti nella “battaglia del carbone” non venga cancellata. Si potrebbe dire, con il sacrificio della vita, procurarono all’Italia il carbone e contribuirono quindi alla ricostruzione del Paese.