Di Adriano Marinensi – In democrazia, il guadagno personale vale come nella dittatura. Quindi, sollecitare il consenso elettorale con il martello che batte sopra l’incudine del proprio tornaconto partitico, finanche a dare per immediato l’impossibile, diventa una furbata politicamente redditizia, però scorretta. Ecco un esempio emblematico. Nel giugno scorso, chissà quanti italiani avranno pensato, come si fa a negare il voto a chi – dentro un coacervo di novità – ci mette pure l’abolizione delle accise sui carburanti? Non solo. Addirittura, alla prima riunione del Consiglio dei Ministri, benzina e gasolio verranno liberati d’ogni balzello che ne fa lievitare il prezzo alla pompa.
Il calcolo della radicale innovazione è presto fatto. Siccome i gravami fiscali pesano per oltre il 50%, visto il prezzo attuale della benzina intorno ad un euro e mezzo, ad occhio e croce, grazie all’impegno preso, il pieno verrà a costare la metà: grossomodo, 75 centesimi al litro. Una cuccagna! Affare mica da poco che – messo insieme a tanti altri millantati sulle piazze – milioni di motorizzati hanno pensato bene di premiare con canestri di voti. Poi però, è passato il primo Consiglio dei Ministri, il secondo, il terzo ed altri ancora, è trascorso quasi un anno e l’esoso “guiderdone” richiesto al distributore è rimasto tal quale. E la promessa fatta, quasi sotto giuramento, si è rivelata per ciò che era: una elegante bugia in abito da sera. Insomma, una bufala!
Tutti quegli “ammennicoli fiscali”, imposti a cominciare da circa un secolo, al presente, rimangono ben incollati ai carburanti. Cominciò il duce, nel 1935, con la prima “tassa di scopo” (tecnicamente chiamata accisa), chiedendo agli italiani un contributo al fine di dare l’impero alla Patria. E il titolo di imperatore a Re sciaboletta. Poi, pian piano, le accise diventarono 17, numero che notoriamente porta sfortuna. Passarono vent’anni e, nel 1956, a Suez, la nazionalizzazione del Canale, provocò una crisi internazionale. Il timore che aumentassero i costi della navigazione commerciale, lo scaricarono sul prezzo della benzina. Nel 1963, ecco arrivare la prima disgrazia nazionale: il Monte Toc franò dentro l’invaso creato dalla diga del Vajont e l’enorme quantità d’acqua tracimata fece morti e distruzioni. Si ricorse al solito ritocco delle accise sui soliti carburanti. Altre sciagure ed altri balzelli: l’alluvione di Firenze (1966), i terremoti nel Belice (1968), in Friuli (1976), in Irpinia (1980). A proposito di quest’ultimo annoto, a margine, che ebbi modo di constatare da vicino i disastrosi effetti, partecipando alla Delegazione per il gemellaggio tra Terni e Castelnuovo di Conza, uno dei centri particolarmente colpiti.
Nuove accise vennero poste a sostegno delle missioni militari in Libano (1983) e in Bosnia (1996). Nel 1994, i ferrotranvieri chiesero un nuovo contratto e il Governo in carica “rincaro’” i carburanti. C’era in giro per lo stivale un parco autobus pubblici vecchio e inquinante. Occorreva rinnovarlo e trovare pure le risorse per il finanziamento. Anche il settore cultura, nel 2011, bussò a denari che vennero tratti dal pacchetto carburanti. Nel medesimo anno, ci fu l’alluvione in Liguria e Toscana e, l’anno dopo, il terremoto in Emilia Romagna. Ne conseguirono altrettanti gravami a carico dei motorizzati. Messi insieme agli altri imposti dalla emergenza immigrati e dal Decreto salva Italia, fanno 17, la catastrofe (fiscale) che neppure la “manovra del popolo” è riuscita a cancellare. A guardar bene, si è sempre trattato di provvedimenti emanati in fasi di emergenza e quindi legati al carattere della temporaneità. Però, in realtà nella fattispecie, è invalsa la massima: passata la festa, gabellato il santo. Quindi la gabella, ogni volta, è rimasta.
“Toglieremo le inique accise su benzina e gasolio” ha edittato (senza riuscirci) l’uomo forte del Governo del cambiamento; così come un altro uomo forte, in altri tempi, proclamò (pure lui senza riuscirci): “Li fermeremo sul bagnasciuga”. La similitudine del millantato credito, sia chiaro, è puramente casuale. Per gli odierni carburanti, tutto è rinviato alla fine del 2019. Finanze statali permettendo, dato che, per l’Erario, trattasi di rinunciare ad un sontuoso malloppo. Allo stato degli atti (parlamentari), si può dire scoppiata una “bolla di sapone” elettorale. Dunque, il salasso alla pompa continua a pesare sulle nostre tasche, nel senso che, per il momento, ce la siamo presa nella saccoccia. Ragion per cui. agli italiani che si muovono a scoppio, è opportuno ricordare la massima secondo la quale errare (votando) è umano, perseverare diabolico. Anzi, scemunito.
Post scriptum (che può apparire fuori testo, però, a pensarci bene, non lo è). In questo momento, nel nostro Paese, fosse soltanto un problema di bolle che scoppiano e di promesse mancate, avremmo la possibilità di rimediare. Invece la situazione mostra purtroppo segni di imbarbarimento sociale. Guai – mi permetto di scrivere – alle nostalgie dei sovranismi di stampo autarchico preferiti alla cooperazione internazionale (che i “sovranisti” di oggi si riuniscano a Roma dove fu la culla – 25 marzo 1957 – dell’Unione Europea voluta da De Gasperi, Adenauer, Schuman e Spaak, è un insulto alla storia). Dico ancora, guai ad alimentare le avversioni, gli antagonismi di razza, ad istigare le diffidenze, guai ad indirizzare la comunità verso il terreno dell’egoismo, dove gli uomini hanno paura di altri uomini uguali a loro, dove il sospetto prevarica la fiducia, dove la difesa dei valori economici è consentita a mano armata e sorpassa la tutela dei caratteri umani. Così si mortifica l’essenza del vivere insieme, si riduce la libertà e la democrazia. Chi, come me, ha vissuto la guerra, ha patito le bombe e non ha perso la speranza, non può condividere sentimenti che mostrano il crisma negativo della disfatta morale.