Di Adriano Marinensi – Il 2016 è stato l’Anno giubilare della misericordia. Ci sono stati invece, a metà del secolo scorso, anni durante i quali la misericordia fu un sentimento sconosciuto a tantissimi uomini e donne, resi crudeli da un credo politico perverso: il nazismo di Adolf Hitler e il fascismo, di pensiero analogo, di Benito Mussolini. Promotori di una guerra efferata che causò quasi 50 milioni di morti.
Ci sono dei centri storici, in Umbria, e in Sabina, che si somigliano quasi fossero gemelli. Alcuni furono “gemellati” dalla predicazione taumaturgica di S. Francesco che da Assisi lasciò tracce ormai eterne nella Valle Santa di Rieti. La contiguità territoriale è data anche da confini tracciati, con semplici tratti geografici, senza tener conto della storia e delle tradizioni comuni. Per chi, da Terni, volesse fare un salto a Leonessa, sarebbe sufficiente percorrere pochi chilometri in breve tempo, attraversando bellissimi paesaggi collinari.
Leonessa è un borgo, collocato vicino alla santa terra di Cascia, e nelle pagine di storia della Resistenza, ha un titolo d’onore. Fece da punto di riferimento per umbri e sabini, impegnati nella lotta di liberazione. Sui monti operarono brigate partigiane che ebbero tra i loro capi “Mario di Piediluco”, nome di battaglia Fulmine. E, sulla sponda opposta, Rosa C., tragicamente soprannominata “Rosa di sangue”. Forse è il caso di riconoscere che, in quel particolare periodo, non ci fu “guerra pulita”, né da una parte, né dall’altra. Però, gli eccessi ebbero una sola paternità: i nazifascisti. Pur se, a carico di qualche partigiano, dopo la fine della guerra, sono stati intentati processi nella ricerca di giustizia che separasse gli atti di guerra dai delitti comuni.
I fatti narrati qui di seguito accaddero, nel marzo del 1944, durante l’occupazione tedesca della nostra penisola, iniziata dopo la caduta di Mussolini, quando i nazisti scaricarono tutta la loro avversione sugli italiani, considerati traditori, usando le armi contro migliaia di cittadini inermi. L’eccidio di Leonessa ebbe un precedente immediato nella “battaglia di Poggio Bustone”. Scrive Pompeo De Angelis, storico delle vicende umbro – sabine: “Il paese è collocato sui contrafforti del Terminillo, rivolto alla Valle del Velino; una gola lo separa dalla rotabile Piediluco – Leonessa”. Vi si svolse uno scontro tra partigiani e fascisti e questi ultimi pagarono un prezzo alto: 13 morti. Ancora De Angelis nel suo Storia di Terni: “Il 10 marzo fu un giorno di svolta, macchiato dalle sevizie sui cadaveri. I poggiani (abitanti di Poggio Bustone) vi introdussero una cattiveria tribale, senza ideologia, ma antica come il Genesi”.
In quei giorni, arriva a Poggio una brutta notizia: si sta formando sul piano una colonna di carri armati tedeschi e si teme quindi la rappresaglia. De Angelis specifica: “Ingenti forze germaniche (forse 200 uomini) puntano su Leonessa, da Rieti, attraverso il Terminillo”. E’ il tempo della Settimana Santa, ma i nazisti non conoscono religione. A questo punto della vicenda, entra in scena una donna, si chiama Rosa ed è al seguito dei soldati. Per il ruolo svolto, la chiameranno “Rosa di sangue”. Scrive ancora De Angelis: “Ha 24 anni, è nata a Cumulata, un grumo di case tra la boscaglia, poco distante da Leonessa”. Se n’è andata giovinetta e vi è tornata, dopo qualche anno, con una cattiva fama, osteggiata dalla gente del posto. Proprio a Cumulata iniziano le sue gesta scellerate, animate soltanto dal piacere del male. Ha un fratello, lo indica tra i primi come partigiano ed è subito eliminato. Con lui altri 11 incolpevoli contadini. E Cumulata distrutta con i lanciafiamme. Uno di quegli innocenti, scampato alla morte, lo trova tra i cadaveri, gravemente ferito, sua madre. Se lo carica sulle spalle e lo porta dal medico di un paese vicino. Dolorosa è anche la figura della vecchia che tenta di difendere il pollaio dai razziatori nazisti a colpi di scopa: uccidono pure lei. Racconta un testimone oculare dell’eccidio: “Quando le SS arrivarono a Cumulata, i miei compaesani erano tutti a letto. Fu intimato loro di alzarsi, vestirsi alla meglio e in fretta. Gli uomini vennero prelevati man, mano che erano indicati da Rosa, casa per casa”.
Il Venerdì Santo i nazisti arrivano a Leonessa, portandosi dietro Rosa di sangue. Indica e fa catturare 34 persone, compreso il Parroco don Concezio Chiaretti e il Podestà. Li portano in una frazione chiamata Fossatelle e li fucilano. C’è, tra loro, un vecchio che pur non accusato da Rosa, ha voluto seguire il destino del figlio di 17 anni. “Oggi a Fossatelle – testimonia il libro – in ricordo delle vittime, esiste un monumento sul quale è scolpita la frase Ecce Agnus Dei”. Nel territorio del Comune di Leonessa complessivamente furono assassinate 51 persone. Ma la strage non è finita così: il Sabato Santo, 13 prigionieri sono prelevati dalle carceri di Rieti, assassinati appena fuori città e sotterrati in un luogo chiamato Fosse reatine.
Gli stessi fatti sono confermati sulla rivista Civitas (1988), diretta da Paolo Emilio Taviani. Anche lì si parla di “una donna scellerata” e del suo comportamento infame. E’ scritto: “Rosa comparve insieme ai soldati, la nera capigliatura fluente sul collo di una lussuosa pelliccia di volpi rosse e iniziò i suoi giri di morte”. La descrizione indulge alla retorica, però appare verosimile. E continua: “Voltandosi a destra e a sinistra, per le strade di Leonessa, additava gli uomini da prelevare con la parola Kaput. Era il segno della fucilazione sicura”. Ormai Rosa faceva parte del commando nazista e proseguì la sua opera malvagia pure in altre piccole frazioni. Si legge più avanti: “Di questa maledetta fratricida, i leonessani parlano come di un personaggio appartenente alla leggenda, una leggenda triste, intessuta di incubi, intrisa di odio e di veleni, di spiriti maligni”. Che fine ha fatto Rosa di sangue? Sembra si sia suicidata l’anno appresso, in Polonia, “dopo aver deposto sul portone di un Istituto religioso – conclude Civitas – il figlio nato dalla sua scelleratezza. Così la donna del terrore è stata inghiottita dal destino che lei stessa aveva segnato per tanti innocenti, durante i giorni di Pasqua 1944”.
A tutto questo belluino agire, vale la pena riportare, ancora una volta, alcuni dei passi significativi dell’epigrafe scritta su una lapide “ad ignominia” da Piero Calamandrei e riprodotta sopra un masso, nel Parco della Cascata delle Marmore. Dice: “Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani (il criminale di guerra aveva avuto l’ardire di chiederlo pubblicamente n.d.a), ma con che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi. Non con i sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio, non con la terra dei Cimiteri, dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità. Ma soltanto col silenzio dei torturati più duro di ogni macigno, soltanto con la roccia di questo patto giurato tra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo”.