Di Marina Sereni – Impossibile derubricare l’esito dei ballottaggi ad un voto esclusivamente locale, per alcuni tratti di omogeneità evidenti, e tuttavia sarebbe giusto che i gruppi dirigenti del territorio – che quando vincono si attribuiscono giustamente il merito del buon risultato – si interrogassero anche sulle ragioni locali della sconfitta del Pd.
Ognuno dunque provi a riflettere su dove e come abbiamo sbagliato, evitando la scappatoia della facile ricerca del “capro espiatorio”. Un’analisi del voto approfondita, leggendo i flussi e le differenze tra un posto e l’altro, non ci farà male, città per città, regione per regione.
Detto questo però è evidente che il risultato dei ballottaggi ci consegna alcuni trend riconoscibili e alcuni dati incontrovertibili: dove ci confrontiamo con il M5S il Pd perde per un travaso evidente di voti dal centrodestra; non accade automaticamente il contrario (anche se a Savona e Grosseto sì) e comunque il centrodestra torna ad essere competitivo quando esprime una guida moderata; il M5S conquista la capitale e importanti città, tra cui ahimè Torino, e ora è davvero alla prova del governo.
Gli effetti di questa tornata amministrativa dunque vanno molto al di là della dimensione amministrativa e locale. Il dato negativo per il Pd è netto e non va in alcun modo edulcorato. Cosa possiamo e dobbiamo fare? Cosa mi auguro che si discuta nella prossima direzione?
La lettura dei giornali di oggi, in primis l’ampia intervista di D’Alema, mi aiuta ad esprimere una posizione molto chiara. Chi pensa che a questa battuta d’arresto, a questo primo serio momento di difficoltà per il Pd da quando Renzi è segretario, si debba rispondere riportando indietro le lancette dell’orologio e fermando il cambiamento in corso non ha capito nulla di ciò che sta avvenendo. E chi pensasse di approfittare di questa difficoltà per provocare una rottura definitiva nel Pd si assumerebbe una responsabilità drammaticamente grave, che credo non avrebbe il plauso nemmeno di quei nostri elettori arrabbiati e critici nei confronti dell’attuale leadership.
Mi auguro quindi una discussione franca e vera nella prossima direzione che tuttavia non degeneri in una resa dei conti.
D’altro canto ha senso riunirsi e discutere insieme dei più recenti risultati elettorali e dei punti di criticità che essi ci propongono se poi, insieme, cerchiamo delle strade anche nuove da percorrere, se poi, insieme, proviamo a correggere là dove c’è da correggere. E dove c’è da correggere? Faccio una scelta secca e indico due soli punti.
Il partito: servono organizzazione e spirito di comunità, radicamento territoriale e comunicazione moderna. Non credo affatto che la soluzione sia la separazione dei ruoli tra premier e leader del partito, questione che comunque semmai possiamo affrontare al prossimo congresso.
Ma vorrei che discutessimo davvero dello stato reale del partito sul territorio e fossimo consapevoli – Renzi prima di tutto – che una sfida riformatrice cosi ampia e ambiziosa, come quella che lui ha lanciato dal governo, non si può vincere senza avere antenne e forze nella società pronte a spiegare, ascoltare, sostenere le riforme. Se è cosi serve definire un organismo e delle funzioni esecutive che possano lavorare anche in autonomia dal leader e premier. E serve uno sforzo di inclusione, uno spirito unitario più forte, meno voglia di battibecchi tra di noi. Ci sono tante persone – giovani e con esperienza – pronte ad aiutare, disponibili a dare una mano se solo qualcuno le mettesse nelle condizioni di farlo.
Le politiche del governo: sono convinta che in questi anni abbiamo approvato tante buone leggi, abbiamo smosso positivamente molti settori della vita pubblica e impresso nuovo dinamismo ad un Paese immobile da troppo tempo. La congiuntura economica internazionale non è brillante e gli effetti delle riforme strutturali hanno bisogno di un po’ di tempo per farsi sentire ma la direzione è giusta e guai a fermare il processo di cambiamento. Ma c’è un punto che il voto ha messo in grande evidenza ed è il malessere sociale di strati di popolazione entrati in forte difficoltà con la crisi e privi di adeguate risposte. E’ il tema dei “perdenti”, o potenziali perdenti, della globalizzazione, persone povere o a rischio di povertà, senza lavoro o con redditi insufficienti. In questi ultimi tempi abbiamo cominciato a ragionare su alcuni strumenti di intervento ma credo che sia ancora troppo poco. Possiamo fare una riflessione molto accurata e verificare la fattibilità finanziaria di un istituto universale di contrasto della povertà? Non una misura una tantum e nemmeno un’estensione di ciò che già esiste. Un nuovo istituto, paragonabile alle esperienze europee, che accorpi gli strumenti e gli interventi già in corso anche a livello delle Regioni, e che dia una risposta strutturale al rischio povertà nel nostro Paese.
Mi sembrano due nodi cruciali da affrontare subito per dimostrare ai cittadini elettori – che in democrazia hanno sempre ragione – che abbiamo sentito e capito il loro messaggio.