di Adriano Marinensi – Durante gli anni ’80 del ‘900, nell’Archivio Nazionale di Washington, è stata rinvenuta una importante lettera scritta da Amerigo Dumini, l’esecutore materiale del delitto Matteotti. Dumini ammette di aver ricevuto l’ordine di uccidere il Parlamentare socialista perché i vertici fascisti temevano clamorose rivelazioni su delle tangenti pagate al Governo da una società petrolifera americana.
L’illecita operazione vedeva coinvolto anche Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Giacomo Matteotti ne avrebbe parlato durante il suo discorso previsto nella seduta parlamentare dell’11 giugno 1924. Ma, non gli fu consentito.
Attualizzando il racconto, va detto che, In Italia, il 6 aprile 1924, si svolgono le elezioni politiche. Il clima è quello imposto dalla Marcia su Roma e dalle squadre d’azione in camicia nera. Votano soltanto i cittadini maggiorenni di sesso maschile, in base alla “Legge Acerbo” che prevede il premio alla maggioranza. Il risultato favorisce largamente il P. N. F. di Mussolini che prevale con oltre 4 milioni e mezzo di voti (65%), aggiudicandosi 374 seggi alla Camera dei Deputati. Alle opposizioni restano le briciole: al P. P. I. di Alcide De Gasperi, 645.000 voti e 39 Deputati; al P. S. U. di Giacomo Matteotti, 422.000 voti e 24 Deputati. In Umbria, primo partito è il P. N. F. seguito dal P. S. U. e dal P. P. I.
Questo è lo stato dell’arte (politico) sul quale si innestano gli avvenimenti che portano all’uccisione di Matteotti e si legano al discorso da lui pronunziato alla riapertura della Camera, il 30 maggio 1924. Discorso di grande coraggio con il quale denunzia le violenze fasciste, le illegalità, i brogli. Parla di “sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare” e fa imbestialire Mussolini. “Contestiamo – dice – in questo luogo e in tronco, la validità della elezione della maggioranza”. Aggiunge: “Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se avesse osato affermare il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il responso”.
Il rappresentante socialista ha in serbo qualcosa in più, cioè l’episodio corruttivo sopra citato. Il Governo italiano aveva appena concesso all’americana Sinclair Oil, lo sfruttamento, per 50 anni, dei giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. In cambio era stata pagata la tangente. I documenti di prova sembra li avesse Matteotti nella borsa che portava con se, il giorno del rapimento. Quel 10 giugno 1924, mentre cammina sul Lungotevere romano Arnaldo da Brescia, un gruppo di fascisti, capitanato da Amerigo Dumini, lo carica a forza sopra una automobile e, poco dopo, lo uccide. La borsa quindi va in mano ai rapitori, poi passa al capo della polizia Emilio De Bono, che, nel 1944, la invia a Mussolini, nel tentativo di evitare la condanna al Processo di Verona. E’ tra i documenti del duce inventariati dai partigiani, a Dongo, persi nel nulla, al pari del favoloso tesoro.
Insomma, per il Governo fascista, Matteotti è diventato un nemico pericoloso. Il suo corpo lo ritrova, due mesi dopo – il 16 agosto – un brigadiere dei carabinieri, Ovidio Caratelli, mentre passeggia con il cane, in località Quartarella, nel bosco di Riano, vicino Roma. Mauro del Giudice, un inflessibile magistrato, apre l’indagine ed arriva, quasi subito all’arresto di Dumini e compagni, ma viene esonerato dall’incarico. In Parlamento, Mussolini pronuncia un discorso furente, che, di fatto, apre le porte alla dittatura. “Si dice che il fascismo è un’orda di barbari accampati nella nazione, è un movimento di banditi e di predoni. Ebbene, dichiaro, al cospetto di questa Assemblea e del popolo italiano, che io assumo la responsabilità politica, morale e storica, di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo è stato soltanto olio di ricino e manganello, a me la colpa; se il fascismo è stata una associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione”. A lui dunque tutte le colpe e anche tutto il potere. Quindi, con aria di sfida: “La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e tradurli dinnanzi all’Alta Corte di Giustizia”. Subito aggiunge: “Domando formalmente se in questa Camera o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’art. 47” (dello Statuto Albertino, n. di r.). Siamo alla rappresentazione del peccato originale: l’arroganza e l’antidemocrazia. Sia la conquista, sia la gestione del potere hanno un comune denominatore: la violenza verbale e fisica. Che ebbe un sostegno teorico, come scrive il sociologo Franco Ferrarotti: “Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti (il Futurismo) hanno covato abbastanza a lungo l’uovo fascista di Benito Mussolini”.
E’ l’eco lunga di un altro pronunciamento, il famoso “discorso del bivacco”. Quando, sempre alla Camera, il 16 novembre 1922, subito dopo la Marcia su Roma, declamò: “Potevo fare di questa aula sorda e grigia, un bivacco di manipoli; potevo ma non ho – almeno in questo primo tempo – voluto”. Nell’agosto del 1924, ritenne il tempo giusto fosse arrivato. Il processo per l’assassinio di Matteotti fu una farsa. Si svolse durante la settimana tra il 16 e il 24 marzo 1926, a Chieti, con l’ordine segreto del duce, di dare la minima pubblicità all’evento. A tradire la consegna ci pensò il difensore di Dumini, Roberto Farinacci, con una arringa rumorosa, piena zeppa di retorica e fanatismo che gli costò la carica di Segretario nazionale del P.N.F. Alla fine, i tre principali imputati – Amerigo Dumini, Albino Volpi e Amleto Poveromo – furono condannati, per omicidio preterintenzionale, ad anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione. Rimasero in prigione soltanto due mesi. Un processo molto più serio, a carico degli assassini, si svolse a Roma nel 1947. Dumini e gli altri ebbero la condanna a 30 anni di reclusione. Sei anni dopo fruirono dell’amnistia.
Il giorno prima dei funerali di Matteotti (22 agosto), la vedova Velia scrisse al Ministro degli Interni chiedendo che “nessun milite fascista di qualunque grado o carica, nessuna camicia nera”, fosse presente. L’affronto alla memoria l’aveva fatto, di suo pugno, Mussolini scrivendo sul Popolo d’Italia che “la maggioranza era stata troppo paziente e la provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale”. Forse non al punto di ucciderlo, però una sonora lezione era necessaria. Una lezione altrettanto severa e violenta, in perfetto stile squadrista, la subì l’avvocato Pasquale Magno che aveva avuto l’ardire di patrocinare, nel dibattimento, Velia Matteotti.
Tra il 1925 e il 1926, vennero emanate le cosiddette “leggi fascistissime”. La legge sulla stampa attribuì al Governo il gradimento dei direttori di giornale, Furono di fatto aboliti i Partiti diversi dal P.N.F. La Camera dei Deputati divenne Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Soppresso il diritto di sciopero e istituito il Gran Consiglio del fascismo. Per gli antifascisti il confino e per i sovversivi il Tribunale speciale. Per Mussolini il comando.