Il triste destino – 33 anni di galera – di Bernardino, l’ergastolano innocente
di Adriano Marinensi
Nel dicembre 1939, in Italia, c’era ancora il Natale della non belligeranza. Stavamo riprendendo fiato dallo sforzo bellico per la conquista dell’Impero, in Africa orientale e dalla partecipazione alla campagna a sostegno del nuovo dittatore spagnolo Francisco Franco. Gli anni dell’orgoglio fascista e del Noi tireremo diritto, compreso il periodo delle sanzioni economiche, avevano messo a dura prova le casse dello Stato e in evidenza le debolezze militari. Il patto istitutivo dell’ Asse Roma – Berlino aveva legato strettamente l’Italia alla Germania nazista che, all’improvviso, era entrata in guerra invadendo la Polonia (2 settembre 1939). Ce lo comunicarono a cose fatte.
Mussolini scelse ancora una strategia d’attesa, inventando la non belligeranza perché la posizione neutrale parve inadeguata al ruolo di solidarietà con l’alleato nazista. Lui stava tra due fuochi: Il desiderio di sedersi al tavolo dei vincitori della “guerra lampo” che aveva già fatto notevoli passi in avanti e la consapevolezza di non essere alla stregua della forza guerriera del Reich. Ecco allora, l’importanza storica di una lettera, inviata ad Hitler nel gennaio 1940 e raccontata nel libro L’Italia dell’Asse, scritto a quattro mani da Montanelli e Cervi.
In quella missiva, il duce – tra alcune riflessioni destinate a prorogare lo stato di non belligeranza – pose ad Hitler un interrogativo: “Vale la pena – chiese, da un punto di vista falsamente umanitario e poco politico – dopo che avete realizzato la sicurezza dei vostri confini orientali e creato il Grande Reich da 90 milioni di abitanti; vale la pena rischiare tutto, compreso il Regime, e di sacrificare il fiore delle nuove generazioni tedesche per anticipare la caduta di un frutto che dovrà fatalmente cadere ed essere raccolto da noi che rappresentiamo le forze nuove d’Europa?”
Una bella domanda, posta da una parte attendista ad un’ altra ormai lanciata alla conquista di mezzo mondo, con una forza militare dimostratasi travolgente. Forse quel “NOI che rappresentiamo” fu interpretato come eccessivo, in quanto pronunciato da un “non belligerante”. Oppure parve a Berlino una idea dal sapore ingenuo, stante il momento trionfante dell’offensiva militare. Mussolini, nella lettera, ci aveva aggiunto una offerta di compromesso per la Polonia già completamente occupata. Scrisse: “Un popolo che è stato tradito dalla sua classe dirigente, ma che – come Voi stesso avete riconosciuto – si è battuto con coraggio, merita il trattamento dei vinti, non quello degli schiavi”. Quindi, la proposta di sapore utilmente pacifista: “La creazione di una modesta Polonia non può costituire un pericolo per il Grande Reich”.
C’è , con ogni probabilità, da parte di Benito, anche la preoccupazione per il mano libera ottenuto da Adolf a seguito del Trattato di non aggressione tra Germania e Russia, firmato (agosto 1939) da Ribbentrop e Molotov. Un accordo che parve ferreo e che invece ebbe vita breve, da quell’agosto al giugno 1941, quando iniziò l’Operazione Barbarossa di invasione dell’URSS, terminata il 5 dicembre 1941 con la disfatta del corpo di spedizione nazifascista. A proposito del patto Ribbentrop – Molotov, Mussolini espresse la seguente osservazione: “Sino a quattro mesi fa, la Russia era il nemico mondiale numero uno; non può essere diventato ora l’amico numero uno”. Con la scelta ideologica radicale: “Il giorno in cui avremo demolito il bolscevismo, sarà la volta delle grandi democrazie”. Dunque, nonostante le giravolte del camerata germanico, i nemici di Mussolini rimanevano l’URSS e le democrazie occidentali.
Da Berlino la risposta giunse qualche tempo dopo, sottolineando che non era più tempo di negoziati e che “la partita sarà risolta con le armi e il posto dell’Italia sarà inevitabilmente a fianco della Germania”. Quasi un diktat che Mussolini dovette “inevitabilmente” raccogliere il 10 giugno 1940, quando dal solito balcone di Palazzo Venezia, annunciò che la dichiarazione di guerra era stata consegnata agli Ambasciatori di Francia e Inghilterra.
Ebbe inizio, quell’infausto giorno, la luttuosa tragedia che travolse gli italiani e si concluse cinque anni dopo, per Mussolini sulle sponde del Lago di Como e per Hitler nel grigio bunker sotto le rovine della Cancelleria, a Berlino. La guerra, iniziata il 2 settembre 1939, ebbe fine in Europa i primi giorni di maggio 1945 e nel Pacifico all’inizio di settembre dello stesso anno. Era costata al mondo 50 milioni di morti in battaglia, nelle città bombardate, dentro le navi affondate.
Con la dichiarazione del 10 giugno, il dittatore in camicia nera pensava di “afferrare gli attimi fuggenti nel quadrante della storia” e invece portò il nostro Paese al dissesto. Con la complicità, non marginale, della Casa Savoia, postasi nei riguardi del fascismo, in posizioni di sudditanza. In mezzo ad una serie di errori che le costarono l’ostracismo con il referendum popolare del 2 giugno 1946, confermato il 22 dicembre 1947 dall’approvazione della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Avevamo ritrovato la libertà, però a carissimo prezzo.
Un ergastolano innocente
Ora un salto molto in lungo, sino a qualche giorno fa, per scrivere di un ergastolano, in carcere da 33 anni e ora assolto per non aver commesso il fatto del quale era stato accusato. Sembra la trama di un romanzo dell’assurde, invece è un fatto realmente accaduto. In Sardegna, dove l’8 gennaio 1991, tre uomini vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco e un quarto ferito gravemente. Uccisi padre e figlio proprietari di un ovile e il loro aiutante di stalla. Insomma, una strage. Il movente ipotizzato: le solite beghe pastorizie. Indiziato un servo pastore Bernardino Zuncheddu per via di precedenti litigi con i morti ammazzati. In più, sembra di interpretare il pensiero degli inquirenti: è pecoraio pure lui, uomo di nessuna cultura, con un nome sardissimo: Il classico soggetto ammazzasette. E poi, di fronte a tanta violenza, non c’era tempo di dare ascolto all’accusato.
Processo e condanna all’ergastolo, malgrado le ripetute dichiarazioni di Beniamino che di anni, quando entra in galera, ne ha 27, dunque un giovanotto, però ergastolano. Poi, il tempo passa e la giustizia – sollecita nel pronunciare il fine pena mai – si scorda di lui. La sua difesa però continua a battersi per l’innocenza. Quali interessi poteva avere un servo pastore, nullatenente, nel prendere a schioppettate tutta quella gente? E si, la riflessione non era peregrina. Ma si sa, a condannare si fa presto, a riesaminare la sentenza ci vuole tempo. Quasi un miracolo. Nei giorni scorsi, dopo 33 anni di “invecchiamento” nelle patrie galere, Zuncheddu è stato riconosciuto estraneo alla mattanza del 1991.Una sorta di “ci scusi, signor Bernardino, per l’errore commesso. Adesso lei però è un cittadino libero e può tornare a godersi la vita”. Mike Bongiorno avrebbe detto: Allegria!