Di Adriano Marinensi – Era finito nel dimenticatoio il duplice omicida di Foligno. Ora, un provvedimento giudiziario lo ha riportato in cronaca. Dopo il lungo periodo di detenzione, non è possibile far uscire l’autore dal carcere perché ritenuto ancora “socialmente pericoloso”. Si chiama Luigi Chiatti: 26 anni fa, compì un efferato crimine che sconvolse l’Umbria ed ebbe grande eco in Italia. Ma, chi è Luigi Chiatti? Per i cosiddetti millennials, lo stesso che Carneade per don Abbondio.
Nel 1968, a Narni, una giovane collaboratrice domestica partorisce un “figlio della colpa”. All’epoca, un bastardo. Non può tenerlo e lo affida al locale brefotrofio. All’anagrafe, viene registrato Antonio con il cognome della madre Marisa Rossi (il padre – scrisse all’epoca la Repubblica – “pare fosse un fiorentino importante di nome Francesco”). Dunque, Antonio Rossi vive, per alcuni anni, nel collegio frequentato da molti figli di nessuno; lo adotta una coppia di Foligno e Antonio Rossi diventa Luigi Chiatti. Non è soggetto facile, né a casa, né a scuola, però riesce a conseguire un diploma. All’età di 10 anni, una psicologa diagnostica in lui “un io debole e inaffettivo, con scarso controllo degli impulsi”. E’ un solitario, disturbato da qualche complesso di troppo, forse per le sofferenze patite nel tempo dell’ adolescenza. Al processo, un suo compagno di orfanotrofio dichiarerà che entrambi avevano subito le attenzioni di un Sacerdote.
Ventisei anni fa, il quattro di questo mese d’ottobre, è domenica. In Umbria, anche solennità grande. Il calendario e la cristianità onorano S. Francesco d’Assisi. Nelle campagne nostre, in tanti usano ancora devotamente santificare le feste. In un borgo tra Foligno e Bevagna, all’uscita dalla Messa, i genitori cercano il figlio. Si chiama Simone Allegretti. E’ scomparso mentre giocava vicino casa. Però, non può essere andato lontano: ha solo quattro anni. Infatti lo ritrovano nei pressi del luogo dove era sparito. Morto, in fondo ad un dirupo. Il corpo mostra evidenti segni di violenza. Insomma, lo hanno ucciso. L’autopsia accerterà “mediante strangolamento e colpi di coltello”. Chi può avere il coraggio di sopprimere brutalmente un bambino in tenera età? Solamente un mostro. E così, fin da subito, quell’assassino ignoto, diventa il “Mostro di Foligno”. Il clamore è tanto che, a Perugia, arrivano il superpoliziotto Achille Serra e la squadra antimostro, già impiegata nei delitti del serial killer di Firenze (8 duplici omicidi tra il 1968 e il 1985); insieme ad un gruppo di criminologi tra i quali il famoso Francesco Bruno. Viene istituito un numero telefonico per favorire testimonianze, oltre alla eventuale confessione del masnadiere.
Poche ore prima della scoperta del delitto, a Foligno, dentro una cabina telefonica, gli inquirenti trovano un biglietto anonimo. Sta scritto: “Aiutatemi, per favore. Ho ucciso e sono pentito. Anche se so che non mi fermerò”. A convalidare la rivelazione, c’è l’indicazione del luogo ove si trova il cadavere di Simone. Una decina di giorni dopo, comincia a squillare il telefono in Questura. Dall’altro capo, per una dozzina di volte, un “innominato” dichiara d’essere lui il mostro. Riescono ad identificarlo e trarlo in arresto. Si tratta dell’ agente immobiliare lombardo Stefano Spilotros. Il mostro finisce sbattuto in prima pagina. E gli inquirenti: “Abbiamo raccolto numerosi, pesanti e gravi indizi a carico del sospettato”. Macché, Spilotros non c’entra nulla. Un nugolo di parenti ed amici testimoniano che, il giorno del delitto, stava con loro molto lontano dall’Umbria. Lo ha abbandonato la fidanzata e lui ha dato di matto. Voleva morire sparato dai poliziotti o linciato dalla folla. Intanto s’è creata intorno alla vicenda, una atmosfera di forte attenzione morbosa. Addirittura, un operaio della provincia di Macerata si suicida e lascia scritto: “Sono io il mostro. Perdonatemi”. Non è vero niente.
E’ vero invece quel che accade il 7 agosto 1993, dieci mesi dopo il primo delitto. Fa molto caldo quel giorno e sotto un albero della campagna folignate, non lontano dal casolare di famiglia, sta seduto un ragazzino. Si chiama Lorenzo Paolucci di anni tredici. Passa un giovanotto, lo invita a casa sua, a Foligno. Giocano insieme e, in un raptus di follia, il giovanotto uccide il ragazzino. Altro scomparso ed altre ricerche affannose. Rinvengono subito il cadavere poco distante dalla casa dei Chiatti. Luigi è amico di Lorenzo e il suo carattere un po’ contorto desta qualche sospetto. E Luigi, appena interrogato, confessa il delitto. Anche quello di Simone Allegretti. Lo arrestano lo stesso giorno della morte di Lorenzo. Questa volta il mostro c’è veramente. Ha strangolato entrambi senza ragione alcuna, tranne la sua perversione. Rivela: “Quella sera tutti parlavano di me. Per la prima volta mi sono sentito importante”. L’opinione pubblica è indignata e sbalordita. Quasi incredula che un adulto (26 anni allora, 50 oggi) possa concepire un disegno criminoso così iniquo.
L’eco rimbalza attraverso gli organi di informazione che si mobilitano in forze quando, a dicembre 1994, inizia il processo in Corte d’Assise. Un dibattimento accigliato e severo al termine del quale Luigi Chiatti, poiché reo confesso dei due delitti, commessi con diverse aggravanti, viene condannato all’ergastolo. Anzi a due ergastoli, uno per ogni bambino ucciso. Di nuovo in Corte d’Assise d’Appello, a Perugia, nell’aprile del 1996. Questa volta, all’imputato viene riconosciuta la seminfermità mentale e la pena ridotta a 30 anni di reclusione. Che un successivo indulto accorcerà di altri tre.
Qualsiasi reo, scontata la pena, dev’essere rimesso il libertà. Luigi Chiatti sarebbe dovuto uscire di prigione, avendo pagato il debito con la giustizia. Da alcuni anni si trova a Capoterra, in Sardegna, nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Tempo addietro, uno dei sanitari che lo sottoposero a perizia psichiatrica, ha dichiarato: “Non guarirà. Si tratta di disturbi che possono essere solo attenuati con l’uso di farmaci”. Ora è intervenuto il Tribunale di sorveglianza di Cagliari che ha deciso di trattenerlo nel REMS, avendo riconosciuto la sua attuale pericolosità sociale. In sostanza, dopo tanti anni, potrebbe ancora reiterare i reati commessi. Per il momento rimane recluso. Di libertà se ne potrà riparlare non prima di due anni, previa nuova valutazione. Per dovere di cronaca va aggiunta la notizia che il padre adottivo di Luigi – una delle numerose “vittime del dolore” provocate dalla terribile vicenda – è morto nell’agosto scorso.