Di Adriano Marinensi – Ch’era morto, Mattia Pascal lo apprese leggendo, in treno, la notizia sopra un quotidiano. Riferiva: “Ci telefonano da Miragno (il paese di sua residenza): ieri è stato rinvenuto, nella gora di un mulino, il cadavere di un suicida, scomparso da alcuni giorni e riconosciuto per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal”. Si, proprio così: cadavere suicida, addirittura riconosciuto ecc, ecc. Riconosciuto dalla moglie, dalla suocera e da mezzo paese accorso al canale della mola. Cadavere, il giorno dopo sepolto con tanto di epitaffio sulla lapide e necrologio nell’ebdomadario locale.
E’ così che, inopinatamente, il personaggio inventato da Luigi Pirandello, è diventato il “Fu Mattia Pascal”. E lui lì, sul treno, incredulo, per la evidente contraddizione d’essere morto, sepolto e invece vegeto e in buona salute. Una condizione umana e giuridica, d’acchito, considerata assurda, che poi, riflettendoci, a mente fredda, si poteva utilizzare alla bisogna. Per liberarsi di una moglie pedante, Romilda, di una suocera arpia, la vedova Pescatore e di uno stuolo di creditori che lo inseguivano da tempo. Da quando Batta Malagna, l’ Amministratore delle proprietà lasciategli in eredità dal padre, con disonesti maneggi, lo aveva ridotto alle soglie dell’indigenza. Si poteva fare. Morto per morto, un’altra vita altrove, per il suicida, avrebbe potuto ricominciare. D’altro canto, il suicidio è un proponimento volontario ed autodistruttivo estremo ed a lui mai era frullato in testa.
Decide quindi di calarsi nella nuova ed originale condizione di trapassato vivo, con ampie prospettive di libertà. Una situazione surreale e, ad un tempo, conveniente. La sua riflessione la racconta così: “Ero morto e non avevo più debiti, non avevo più moglie, né suocera. Libero, libero, libero! Che cercavo di più?” Per un certo tratto in avanti, a raccontare la storia di una esistenza quasi apocrifa, sarà appunto il Fu Mattia Pascal. C’è innanzitutto l’esigenza d’esser mutato nell’aspetto per non correre il minimo rischio di riconoscimento. Via dunque la copiosa barba, rasa al suolo da “ un barbiere ch’era anche sartore”. Un intervento tale però da lasciargli scoperto “un ridicolo mento, puntuto e rientrato”. Togliere invece non si poteva l’occhio un po’ sbilenco, caratteristico del morto, avente il vezzo di guardare le cose dal suo strambo punto di vista. Il nome? Certo, pure quello faceva d’uopo cambiare. E lui lo muta cogliendolo per caso durante una discussione tra estranei: Adriano Meis. Dunque, Adriano Meis, senza barba e un grosso cappello in testa, poco più somiglia alla buonanima di Mattia Pascal. Comunque, un altro se stesso.
Dal punto di vista delle finanze, per sbarcare il lunario negli anni a venire, ritiene sia sufficiente la copiosa vincita alla roulette, conseguita al Casino di Montecarlo. Grossomodo, 200 lire al giorno. Gli consente pure di andarsene in giro e in assoluta indipendenza. E si, lui dice: “Recisa di netto in me ogni memoria della vita precedente, mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza”. Se dovessero chiedere nato da chi, dove e quando? “Ebbene – osserva il neonato Adriano Meis – meglio non precisare. Dire magari i miei genitori viaggiavano molto ed io sono nato sopra un piroscafo”. Da Milano, dopo una parentesi trascorsa in albergo, a Roma per cercare una sistemazione migliore e attenuare “il senso pensoso di precarietà”, proprio dei possessori di mutata condizione sociale. La sua è di fatto una libertà condizionata, in quanto “condannato sempre a mentire”. Per esempio, non avrebbe potuto né avere un amico, né un rapporto confidenziale. E come poteva il fu Mattia Pascal, “confidare a qualcuno – dice – il segreto di una tale vita senza il giusto nome e senza passato? A considerarla così, da spettatore – aggiunge – mi pareva una vita senza contratto e senza scopo”. E la paragona all’esistenza dell’uomo destinato a nascere nella odierna modernità. Si interroga Adriano: “Cosa farà l’uomo, quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il progresso non ha nulla a che vedere con la felicità?”
A Roma, prende dimora in camera a pensione, presso una famiglia che esibisce sulla porta d’ingresso “due targhette, Paleari di qua e Papiano di là; sotto questa un biglietto da visita, fissato con due bullette di rame, nel quale si legge Silvia Caporale”. Sono le persone con le quali avrà rapporto diretto durante il soggiorno capitolino; con loro dividerà il bene e il meno bene della convivenza tra estranei. Nel bene c’è il nesso di intervenuta tenerezza con la signorina Adriana, spesso vestita “di una veste da camera di mezzo lutto”. Non è semplice tenere testa alla curiosità tutta femminile, primariamente della signorina Caporale che lo incalza per conoscere i suoi trascorsi che lui non può esternare. Allora, mentire, al limite dell’impostura, diventa un assillo, la pena di se stesso, l’afflizione dell’anima. Alla lunga, intollerabile rovello. Un episodio ne marca l’ultimo confine. Una sera si accorge di essere stato derubato di parte del tesoretto, vinto al Casinò e ne parla in casa. Il consiglio di Adriana, quasi un’ingiunzione, è presentare denuncia. Per via dei suoi inconfessabili reconditi trascorsi, denunciare non si può. Guarda un po’, si rammarica: “Non bastava che mi avessero sottratto dodicimila lire. Dovevo anche temere che il furto si conoscesse.” Il giorno appresso è addirittura costretto ad una ulteriore e umiliante menzogna. La somma afferma di averla ritrovata: era in un posto diverso, una semplice dimenticanza.
Campare così gli era diventato pesante sull’anima come un macigno. Quindi la risoluzione di far morire pure Adriano Meis. Lasciando su un ponte del Tevere il bastone insieme al cappello con dentro il biglietto di addio, datato e firmato. Senza ovviamente buttarsi nel fiume. Conviene invece, una volta suicidata pure la seconda (falsa e mendace esistenza) riesumare la prima. Quella di Mattia Pascal, il quale torna a Miragno, tra la gente che sbalordisce di fronte al risorto. Stupita ancor più e adirata, la perfida suocera; per non dire della moglie, nel frattempo diventata vedova e sposata in seconde nozze, essendo il primo coniuge ufficialmente morto e sotterrato. Nel camposanto e nella memoria. Nozze da annullare, si capisce, a norma di legge, e far tornare Romilda la signora Pascal. Una situazione imprevista, intricata e contorta. Che lui rifiuta.
“L’ arruffo – sostiene il rimpatriato – se c’è, è voluto, non da me bensì dalla favola stessa; la goffa e incerta metafora di noi, un macchinismo in cui ciascuno è la marionetta di se stesso”. Si, è la favola avvincente, inventata dal genio letterario di Luigi Pirandello, il quale ci ha lasciato – insieme ad una mirabile sequela di novelle, racconti, lavori teatrali – questo immortale romanzo, dove si intrecciano, nella straordinaria armonia narrativa, immagini semplici, figure originali, situazioni psicologicamente complesse. Fors’anche testimonianza di una esistenza, la sua di Pirandello, (nato ad Agrigento nel 1867 e morto a Roma nel 1936) che fu piena di prove difficili ed ebbe la ventura di attraversare l’epoca del tramonto degli ideali risorgimentali, sino all’avvento della dittatura fascista.