Un tema centrale che prevede un cammino non solo lungo, come ha detto Draghi, ma dannatamente insidioso
di Luigi Piccolo e Francesco Castellini
Durante la conferenza stampa di fine anno, il presidente Draghi ha annunciato il raggiungimento dei 51 obiettivi concordati con la Commissione Europea per ottenere la prima rata degli aiuti previsti nel Piano di ripresa e resilienza (Pnrr).
Qui ci occupiamo del tratto ancora da percorrere per ottenere una Giustizia quantomeno decente.
E proprio riguardo alla Giustizia c’è ancora molto da fare: qui il cammino non è solo lungo, come ha detto Draghi, ma dannatamente insidioso.
Dunque andiamo per ordine.
Il codice penale, che prevede la struttura del reato e il catalogo dei delitti e delle pene, è del 1930. Questo testo è stato infatti mutato, integrato, alterato e scombinato da diventare un’arlecchinata dove nessuno capisce più nulla.
La riforma Cartabia vi ha messo qualche toppa: tuttavia è a tutti evidente che il codice di procedura andrebbe integralmente rifatto.
Poi l’ordinamento giudiziario. Anche qui la ministra Cartabia si è prodigata per impedire il ritorno in toga dei magistrati entrati in politica, limitando inoltre le esternazioni nei confronti degli indagati. Si tratta ora di vedere come queste norme saranno applicate.
Infine il Csm. Qui la confusione è totale. Dopo lo scandalo Palamara, che ha fatto emergere la baratteria delle cariche da parte delle correnti, la credibilità di questo organo è precipitata.
Ora le proposte di riforma riguardano il sistema elettorale dei suoi membri.
L’unico rimedio a tale degenerazione è il sorteggio, cui cominciano ad aderire toghe autorevoli, come il superprocuratore antimafia, e persino alcune appartenenti allo stesso Csm. Ma per fare questo bisognerà cambiare la Costituzione.
Come si vede, tutti i pilastri della nostra giustizia penale, cioè i due codici, l’ordinamento giudiziario e il Csm sono da rivedere o addirittura da ricostruire.
È un lavoro immenso che comunque, per quanto buona sia la volontà di un ministro e di un governo, spetta al Parlamento.
Ma è un lavoro che va fatto, per citare Draghi, “Whatever it takes”. O meglio, per citare Churchill, “Whatever the cost and the agony may be”: quali che siano il costo e le difficoltà. Perché le difficoltà saranno enormi, e i costi dolorosi per chi proverà a metterci mano. A meno che l’esito dell’imminente referendum non dia un segnale forte ed univoco della volontà riformatrice del popolo italiano.
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Perché non v’è dubbio alcuno che in materia di Giustizia l’Italia continua a restare in fondo alle classifiche europee a causa dei suoi processi lenti e costosi.
Da anni si parla della sua riforma, in attuazione anche delle aspettative dell’Unione Europea che più volte ha esortato le nostre istituzioni a proseguire nel progetto di riordino attraverso la promulgazione di leggi ad hoc dirette ad aumentare l’efficienza di un sistema caratterizzato da troppe criticità. Il Governo Draghi dal canto suo conferma quanto aveva anticipato il ministro Bonafede, che aveva espresso la necessità di ridurre i tempi dei processi e migliorare l’efficienza dell’intera macchina organizzativa.
I punti essenziali della riforma riguardano in ambito Civile l’accrescimento delle potenzialità della negoziazione assistita, al fine di renderla uno strumento più forte ed efficace, per consentire agli avvocati di acquisire le prove prima che inizi il giudizio, utilizzabili dunque anche in tribunale, facendo così venir meno la mediazione.
Negli ultimi anni la durata delle cause contenziose in tribunale è rimasta la stessa, circa 400 giorni, e per portare a termine un procedimento con il rito ordinario in primo grado sono ancora necessari quasi due anni. Questo Governo non potrà non tenere nel debito conto gli effetti prodotti dalla pandemia nel sistema Giustizia del nostro Paese.
Infatti, nei primi nove mesi del 2020 i procedimenti penali pendenti presso gli uffici giudiziari italiani sono cresciuti del 4,3%, riducendosi al contempo il numero di procedimenti presso gli uffici requirenti in misura pari al 2,7%. Si è inoltre verficato un aumento delle pendenze pari all’1,51%. Nelle Procure, negli Uffici del Tribunale, della Corte d’Appello e della Corte di Cassazione, si è registrata una riduzione sia delle iscrizioni che delle definizioni. I fondi del Recovery plan potrebbero contribuire a rafforzare l’esigenza di nuove assunzioni e strumenti più innovativi, necessari a snellire i tempi di attesa e lo smaltimento degli arretrati, attraverso, in particolare modo, l’immissione di mezzi tecnologici adeguati.
Il 3 febbraio il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegno di legge delega sulla riforma del processo penale. Anche in questo caso l’obiettivo è quello di eliminare i tempi morti.
Un tema centrale a cui il magazine Umbria Settegiorni ha dedicato un approfondimento, dando voce a tre illustri rappresentanti del Diritto.
Il dottor Claudio Cicchella, sostituto procuratore generale, con reggenza della Procura Generale di Perugia, il dottor Fausto Cardella, ex procuratore generale della Procura Generale di Perugia e l’avvocato Stefano Tentori Montalto, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia.
Iniziamo dal dottor Cardella, a cui è stato chiesto: tra i tanti problemi e le esigenze di una adeguata riforma della Giustizia, vi è l’annosa questione dei tempi biblici dei processi, sia civili che penali: come affrontare il problema?
Cardella: “Credo che il governo Draghi, se riuscirà a gestire questa fase pandemica e quella dei vaccini, avrà già guadagnato la imperitura gratitudine di tutti quanti, ma non credo che avrà il tempo, la capacità, la forza di poter affrontare i problemi della Giustizia, che sono problemi annosi e divisivi. Guicciardini, nel ’500, diceva che tutto sommato era meglio la giustizia dei turchi, una giustizia “sorteggio”, che perlomeno ti dava una decisione veloce e non necessariamente meno efficace e meno giusta. Il problema della lunghezza dei tempi della giustizia è un problema annoso. Detto questo, quindi, sollevata la mia coscienza, apriamo pure il libro dei sogni. A mio avviso è il nostro codice di procedura che porta alla lunghezza dei tempi della Giustizia. Basti immaginare che è stato fatto più di 30 fa, era stato previsto un tempo di sperimentazione di 3 anni, dopodiché, fisiologicamente, si sarebbe fatta la modifica. Il secondo problema è quello degli spazi, delle strutture, che investe sempre in un certo modo la politica, perché il Ministero ha l’onere di offrire le strutture e se vogliamo celebrare più processi occorrono più aule. Il terzo problema, anch’esso importante, è un problema di organizzazione e questo riguarda soprattutto la magistratura. Sono convinto che anche noi magistrati, io mi considero ancora tale, potremmo fare qualche cosa di più per accelerare i tempi della Giustizia. Però, ripeto, si tratta di piccoli miglioramenti a fronte di quelli grossi che potrebbero essere dati da scelte normative che deve fare il Legislatore”.
A proposito di riforma della Giustizia, il vicepresidente del Csm David Ermini pensa ad un avanzamento di carriera per i magistrati in base ai risultati ottenuti. Lei che ne pensa?
Cardella: “Sono convinto che i magistrati debbano rendersi conto che il sistema che abbiamo avuto finora è un sistema che non può funzionare. Ci sono tantissime cose da fare, da rivoluzionare, dobbiamo cambiare mentalità, quindi stiamo parlando del libro dei sogni. Abbiamo un debito di efficienza e di organizzazione al quale non possiamo sottrarci. Oggi la magistratura sta attraversando un periodo che io ho definito “buio” e dobbiamo renderci conto che una risposta in termini di etica la dobbiamo dare, altrimenti perderemo questo status meraviglioso che ci ha dato la nostra Costituzione. Con tutto il rispetto per il vicepresidente Ermini, al quale rinnovo la mia stima personale, la sua proposta è assolutamente impraticabile. Per valutare il rendimento di un magistrato in base all’esito del processo dovremmo, innanzitutto, stabilire quale processo: quello di 1° grado, di 2° grado, in Cassazione, in Revisione? Poi, a parte questa difficoltà concreta, quanti processi andrebbero presi in esame, uno, due, tre… e qual è la percentuale minima di risultati positivi che si dovrebbe ottenere? Del magistrato si deve valutare la capacità di decidere autonomamente, se ha un comportamento etico o meno e sanzionarlo in questo caso, ma certamente non si deve valutare la sua decisione sul caso, perché non è possibile stabilire se la decisione del pubblico ministero che ha iniziato il processo vale meno di quella del giudice che l’ha annullato o meno di quella della Corte d’Appello che lo celebra nuovamente”.
Dottor Cicchella, a causa della pandemia si è iniziato a celebrare i processi per via telematica, prima solamente quelli civili, successivamente anche quelli penali. Ritiene che questa esperienza possa tornare utile per migliorare l’efficienza della Giustizia con l’abbreviazione dei tempi e dei costi?
Cicchella: “Prima di rispondere a questa domanda sui progressi tecnologici e sul processo per via telematica, mi voglio in qualche modo collegare alle parole dette dal dottor Cardella che condivido pienamente. Il problema più grosso di queste lungaggini processuali è la procedura penale. Per come è stato disegnato nell’89 il processo penale ha completamente fallito il suo scopo. Era nato recependo l’idea della prova che si forma in contraddittorio, ma tutte queste garanzie avrebbero dovuto essere riservate solo ed esclusivamente ad un numero esiguo di processi. Ebbene, il fallimento di questa riforma è dato dal fatto che la percentuale dei processi che va a gravare sui Tribunali e sulle Corti d’Appello è più del 90 per cento. Quindi è inutile che cerchiamo di trovare soluzioni, finché queste percentuali resteranno tali, non ci sarà riforma, rimedio o soluzione in grado di assicurare tempi rapidi alla giustizia penale. Per quanto riguarda lo strumento telematico non credo sia in grado di abbreviare i tempi della Giustizia. Può essere utile per evitare la partecipazione diretta, la presenza degli avvocati, dei giudici, ma non risolverà il problema dei tempi, perché fintanto che avremo a che fare con questa massa enorme di processi e finché ogni processo – che si tratti di guida in stato di ebbrezza o di strage, sarà trattato allo stesso modo – non risolveremo assolutamente il problema”.
Dottor Cicchella spesso ci si interroga sul fatto che la sentenza della Cassazione sia più giusta della sentenza di primo grado? O che i giudici d’Appello decidano meglio del giudice di primo grado? Lei che ne pensa?
Cicchella: “È tutto un meccanismo fondato sulla convenzione di ritenere che l’ultima parola, che spetta alla Cassazione, sia quella corretta, ma tutto ciò non sta a significare che il giudice di primo grado o che il pubblico ministero abbiano sbagliato nell’esercitare l’azione penale in primo grado, o che abbia sbagliato la Corte d’Appello nel confermare, o meno, un’eventuale sentenza di primo grado. Voglio dire che la Giustizia ha delle dinamiche che prescindono dalla sentenza più o meno giusta. È una sentenza che viene accettata come ultima parola e lì si chiude. Però non necessariamente possiamo ancorare una carriera, una valutazione sull’operato del magistrato al solo esito del processo. Sono troppi i fattori che entrano in ballo nel valutare l’esito di un processo, fattori di natura procedurale, che alterano completamente anche l’accertamento del fatto: si pensi ad una prova non utilizzabile dalla quale, magari, emerge la penale responsabilità di un soggetto. Quel soggetto non potrà essere condannato per quella prova e si arriverebbe ad una sentenza di assoluzione malgrado la sua colpevolezza. Quindi dobbiamo mettere in conto che il processo ha le sue regole e che una sentenza è una pronuncia che viene accettata, sia essa definitiva o non definitiva, ma da qui e arrivare a dire che il pm che ha esercitato l’azione penale ha sbagliato o che il giudice nel condannare o assolvere ha sbagliato è, secondo me, errato. Cardella: Per concludere vorrei aggiungere che il vero problema è proprio quello dei tempi della Giustizia. Perché se questi fossero più brevi e quindi si potesse rimediare più facilmente alla decisione ingiusta e arrivare alla decisione ultima, che si presuppone sia quella migliore, il problema verrebbe meno”.
Dottor Tentori, un suo parere sul problema dei tempi della Giustizia, ma anche sul fatto che nella nostra regione gli avvocati lamentano spesso una mancanza di spazi adeguati al funzionamento della macchina della Giustizia.
Tentori: “Dissento in parte da quanto diceva il dottor Cicchella. A mio avviso le garanzie devono valere per tutti i procedimenti, a prescindere dalla gravità del capo d’imputazione. Per quanta riguarda i problemi causati dai ritardi, a mio avviso va sottolineato lo scarso interesse del Legislatore ad investire sulla Giustizia. Possiamo avere i più bravi magistrati che vogliamo, ma se la Politica non investe per risolvere il problema della carenza del numero di magistrati e del personale amministrativo non andremo molto lontano e avremo sempre una “macchina ingolfata”. Ripongo molta fiducia nel ministro Cartabia, che ritengo abbia un diverso approccio al problema e un altro passo rispetto al suo predecessore. Venendo poi allo specifico della nostra situazione locale, diciamo che, da un punto di vista della tempistica, i ritardi ci sono sia nel processo civile che nel penale. Per quanto riguarda gli spazi, invece, nel penale abbiamo seri problemi. Abbiamo delle aule di giustizia che sono anguste, che non sono areate in maniera adeguata, abbiamo dei corridori stretti; diciamo che chi ha progettato il palazzo di Giustizia non ha mai visto un Tribunale penale. Credo che la Cittadella giudiziaria sia una cosa importante da realizzare. Non se ne parla da un po’ ma, mi auguro, che questo progetto venga ripreso al più presto. Magari anche grazie alle risorse che arriveranno per la Giustizia”.
Tentori: “Trovo corrette le osservazioni dei miei interlocutori, però il messaggio che dobbiamo dare ai cittadini è che le certezze ci devono essere date, ovviamente, da quella che è la decisione ultima che ci proviene dalla Cassazione o dalla Corte d’Appello. Infine ritengo sia più corretto un sistema che tenga conto anche dei meriti dei singoli magistrati. Quindi da questo punto di vista è opportuna una revisione e su questo penso che si stia lavorando. La considerazione che faccio è che purtroppo la Giustizia, in generale, in questo momento stia forse vivendo il peggior momento della sua storia. Credo che la vicenda Palamara abbia gettato, agli occhi del cittadino, un discredito generalizzato e ingiustificato sulla Magistratura che danneggia tutti noi che operiamo nel Diritto. È necessaria, quindi, una ristrutturazione generale della Giustizia per ridare piena fiducia ai cittadini e a tutti noi”.