Di Adriano Marinensi – Quando si dice che la democrazia si fonda sul consenso popolare espresso con il voto, occorre tener presente anche qualche rara eccezione. Per esempio riandando con la memoria alle elezioni politiche italiane del 6 aprile 1924. Il contesto in verità era particolare. Mussolini aveva già marciato su Roma e – grazie alle tiepidezze del Re – conquistato Governo e potere. Gli italiani andarono a votare in un clima contrario alla autonomia di decisione e di libera scelta. Era in vigore la “Legge Acerbo” che prevedeva un sistema maggioritario con il premio di maggioranza: i due terzi dei seggi in Parlamento al partito con più voti. Alle urne soltanto cittadini maggiorenni di sesso maschile ed espressione di voto palese. Quando venne approvata la “Legge Acerbo”, Filippo Turati la bollò così: “Non si legifera tra i fucili spianati. Una legge consigliata da 300.000 moschetti, non può che essere la legge di tutte le paure e di tutte le viltà.”
Quel premio di maggioranza fu una trappola che scattò puntualmente a favore del “Listone Mussolini” e permise ai fascisti di ottenere oltre il 60% dei voti e 355 seggi su 535. Ai 355 si aggiunsero altri 19 ottenuti dalla Lista Nazionale bis formata, per lo più, da “camerati” di provata fede. Nella Circoscrizione Lazio – Umbria, la nostra regione elesse Elia Rossi Passavanti, Mario Cingolani, Tito Oro Nobili. Oltre ai 374 di maggioranza, entrarono in Parlamento – per i partiti principali – 39 Deputati del P.P.I., 24 del P.S.U., 22 del P.S.I., 19 del P.C.I., 15 liberali, 7 repubblicani. Insomma, una opposizione che, anche a volerla schierare unita, nulla avrebbe potuto contro le preponderanti forze in camicia nera.
Quel 60% di suffragi fu contrabbandato per “ampio consenso popolare” al fascismo ed al Governo Mussolini. Per di più un consenso inquinato da minacce e brogli denunciati da Giacomo Matteotti. Disse: “Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, anche se avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto.” E aggiunse: “Noi contestiamo in questo luogo e in tronco, la validità dell’elezione.” Il suo fu un discorso rigoroso e di grande coraggio, pronunciato il 30 maggio alla Camera: non piacque affatto a Mussolini ed ai suoi gerarchi. Ne aveva un altro di discorso da fare con altre accuse al regime. Una in particolare riguardava Arnaldo Mussolini, fratello del duce, coinvolto nel pagamento di una tangente, pagata da una compagnia petrolifera americana (l’ “affare Sinclair oil”), per ottenere concessioni dal Governo.
Un intervento che non poté fare perché il 10 giugno 1924, giorno prima della seduta parlamentare, mentre transitava sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, fu rapito e ucciso da una squadraccia di fascisti capeggiati da Amerigo Dumini. Il corpo venne ritrovato due mesi dopo (16 agosto) sepolto nel bosco della Quartarella, a pochi chilometri da Roma. Per quell’assassinio, Dumini subì un processo farsa durante il fascismo ed uno vero nel 1945, con la condanna all’ergastolo. Si fece solo sei anni di prigione ed uscì con l’amnistia del 1953.
Il 3 gennaio 1925, Mussolini inscenò alla Camera una minacciosa arringa, assumendosi anche la responsabilità politica del delitto Matteotti; arringa che gli storici hanno considerato “l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario”. Fece seguito all’altrettanto grintoso “discorso del bivacco” (16 novembre 1922): “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli… Potevo, ma non ho, almeno in questa prima fase, voluto.” Poco più tardi invece cominciò a volere una dittatura monocratica con il potere accentrato su di lui ed un popolo di sudditi asserviti alla sua dottrina.
C’era un nemico interno che occorreva combattere tra i primi e possibilmente annientare: la stampa non ancora allineata al nuovo sistema politico. Ci fu sin dall’inizio una marcia di avvicinamento di alcune testate alle posizioni mussoliniane. Per esempio, Il Messaggero: “Vittorio Emanuele III ha reso un grande servigio alla Nazione … ha saputo isolare le irresponsabilità degli avvenimenti dalla sostanziale bontà del fine che si propone il movimento fascista”. Più avanti aggiungerà: “C’è qualche cosa nella musica rapsodica delle improvvisazioni retoriche dell’on. Mussolini. Se i gesti di questo superbo uomo latino rappresentano l’istinto di ascensione del popolo, si può ben dire che la sua parola, dolce e dura, esprima tutta la varietà del suo spirito creativo che mai non ristà”. Diversamente Il Corriere della Sera: “Il colpo di mano fascista è in corso di esecuzione. Siamo stati avvertiti che il partito ha deliberato il controllo sulla stampa. Finché abbiamo potere di libertà, noi consideriamo dovere elevare una ferma protesta contro questa decisione”. Il perugino Giuseppe Prezzolini, in una lettera al Direttore del Corriere: “Sento l’offesa recata alla libertà che non sarà così presto sanata”. Seguirono le violenze squadriste a danno dei giornali “disfattisti”.
La repressione della critica e del dissenso a mezzo stampa venne codificata con la pubblicazione del D.L. 8 luglio 1924 che spianò la strada alla censura ed alla insindacabile potestà di procedere al sequestro immediato e persino preventivo dei fogli invisi al regime. Ormai il dado era tratto e il bavaglio posto in maniera pesante. Questo accadde negli anni ’20 del ‘900, quando il voto popolare venne usato per attribuire alla maggioranza un “comando” assoluto e prevaricante che non trova alcun fondamento nelle regole della democrazia. C’era invece una logica perversa, ispirata da falsi valori nazionalisti che portarono il nostro Paese verso l’isolamento all’insegna del motto “molti nemici, molto onore”. Logica teorizzata, negli anni che seguirono, da Galeazzo Ciano secondo il quale era necessaria “una netta separazione tra razza dominante e razza dominata.” Per un lungo periodo storico, il fascismo fu la razza dominante e il popolo italiano di allora la razza dominata. Popolo italiano di oggi, attenzione! I sovranismi esasperati possono portare queste aberrazioni. Le simpatie elettorali verso l’ “uomo forte” di turno sono sempre pericolose.
P.S.: Dal Consiglio d’Europa, nei giorni scorsi, è arrivato un ammonimento: l’Italia è lo Stato dell’U.E. con il più alto indice di minacce ai giornalisti nel 2018. Il maggior numero di minacce lo hanno registrato (19 in tutto) dopo l’insediamento del nuovo Governo. In particolare, Salvini e Di Maio, “attraverso i social media esprimono una retorica particolarmente ostile nei confronti dei giornalisti.”