Di Giuseppe Quintaliani e Gian Battista Mannone – Sempre più frequentemente si parla di liste di attesa. E non c’è giorno che sulla stampa non vengano pubblicate grida di dolore per esami rimandati di mesi od anni.
La cosa interessante è che quasi sempre si parla di “esami” diagnostici e quasi mai di visite. E la cosa dovrebbe preoccupare ed allarmare il decisore politico. Infatti l’allungamento delle liste di attesa per prestazioni diagnostiche svela un problema legato non tanto alla medicina, ma alla richiesta non governata di esami, alle volte utili, ma quasi sempre inutili, per diagnosticare patologie sospette ma non chiare. E dovrebbe allarmare anche la classe medica che si trova a non diagnosticare patologie spesso ovvie con epidemiologie chiare ma che il clinico non è in grado di riconoscere , problema a cui cerca di porre rimedio inducendo esami diagnostici.
E’ noto che l’allungamento delle liste di attesa sia uno dei diversi strumenti manageriale di razionamento delle opzioni in sanità: spesso si cela il tentativo di spostare verso il privato molte attività che sicuramente il privato sa “gestire” meglio, ma siamo sicuri che sappia farle meglio? Si potrebbe discutere se professionisti che hanno in cura ricoverati debbano limitare il loro tempo di cura per fare visite agli esterni e se quindi il modello privato per esterni e ospedali per interni possa essere il più adatto, ma non è questo ora il punto (magari ci potremo ritornare). Il focus è che il problema delle liste di attesa non si affronta con l’aumento dell’offerta, che casomai deve venire ben dopo tante altre cose! L’aumento della richiesta, che in un mercato libero governa l’offerta, nel campo della sanità (che non è un mercato libero ma vincolato) deve essere gestito e governato rendendo la richiesta oculata ed appropriata. Il movimento di pensiero “from volume to value” è un esempio illuminante. Come? Ci sono alcuni modi fondamentali che partono dalla consapevolezza che molte indagini sono assolutamente inutili. In questa intervista di che si rifà al programma Choosing Wisely, Cartabellotta del Gimbe cerca di individuare appunto le cose inutili. E le cose inutili dovrebbero essere discusse con i MMG, con le amministrazioni e con i professionisti chiamati ad offrire prestazioni, non essere imposte da amministrativi. Una soluzione o un tentativo di affrontare il problema potrebbe risiedere nel resoconto CUP; i professionisti che fanno gli esami potrebbero segnalare positivo/negativo, in modo da permettere una rilevazione statistica: quanto esami vengono richiesti, quanto di essi sono positivi o negativi? In questo modo avremmo innanzitutto una rilevazione statistica dei bisogni e delle patologie da prendere in considerazione. Se poi gli esami fossero in maggioranza negativi si potrebbe intervenire con progetti di formazione/informazione. In un recente articolo, i radiologi hanno ammesso che il 50% degli esami strumentali di immagine sono del tutto inutili: allora perché aumentare le ore di apertura? Per fare ancora più esami negativi e quindi dannosi, vista la dose irradiante somministrata?
Rincorrere lo screening (nei pochissimi casi in cui sia indicato) è sacrosanto ma forse non è tanto l’anelito alla salute della popolazione ma il desiderio di raggiungere risultati monitorati da AGENAS per salire sulle classifiche. Se interessasse veramente la salute della popolazione si applicherebbero i decreti ministeriali come il recentissimo decreto sulla cronicità’ o, per quello che riguarda la nefrologia, il decreto sulla malattia renale cronica. Eppure situazioni così ben codificate ma con lunghe liste di attesa (in nefrologia ci sono sei mesi di attesa per il follow-up) non vengono affrontate e si preferisce aumentare l’offerta della diagnostica. Perché si valuta solo la prima visita quando il problema è la cronicità? Si dovrebbe valutare la presa in carico e le visite successive che assicurano la costanza della cura e la prevenzione delle complicazioni. Strano no? Senza contare che, come dice Remuzzi dal lavoro di Lancet, la malattia renale cronica è la quinta causa di morbilità in Italia ma non si attuano misure di prevenzione, si smontano guardie 24 ore, non si assume personale e si lasciano pazienti cronici senza paracadute riducendo addirittura gli accessi durante l’estate.
Un’altra soluzione potrebbe consistere nello spostare gli amministrativi nei reparti. Una recente indagine dimostrava che gli amministrativi sono tanti negli ospedali. e in aumento, ma molti dimenticano di dire che gli amministrativi stanno in aree a loro riservate e non nelle degenze, né tanto meno negli ambulatori! Gli amministrativi, se spostati negli ambulatori e nelle degenze, potrebbero aprire le cartelle e archiviarle, fare fotocopie, scrivere le lettere che il medico potrebbe dettare al registratore (come fanno i radiologi), sistemare le cartelle in maniera cronologica e tante altre piccole cose che renderebbero molto più veloci e proficue le visite. Tanto per fare un altro esempio: le cartelle contengono fogli perforati per permettere di agganciarli e mantenerli ordinati, eppure basta un foglio in più per la terapia, una semplice lettera di dimissione da dare al medico, o altri documenti da inserire come risposte gli esami, per costringere un medico ad aprire tutti gli anelli, sfogliare i fogli uno ad uno e rimetterli al loro posto in maniera ordinata. Quanto tempo viene impiegato per queste pratiche non del tutto mediche sanitarie? Invece gli amministrativi vengono mantenuti in aree a loro riservate e pochissimi di loro sono nei reparti e nessuno negli ambulatori.
Ancora: l’uso della informatica. Quante volte si scrive la terapia di un paziente in ambulatorio? La terapia nel computer del medico di medicina generale spesso NON viene comunicata allo specialista che, visto il grande problema nelle malattie croniche, di volta in volta può essere il cardiologo, il diabetologo, il nefrologo, il chirurgo vascolare, eccetera. A causa di questa mancanza di comunicazione spesso 5,6,7 terapie scritte in ognuna delle cartelle degli ambulatori dove il paziente accede, e quasi sempre nessuna è congruente con le altre, ammesso che il paziente porti con sé i bugiardini delle medicine per capire effettivamente quelle che sta assumendo. Si pensi al tempo sprecato e quanto se ne potrebbe guadagnare semplicemente se la terapia del paziente fosse univoca e facilmente consultabile e consigliabile da tutti coloro che hanno in cura il paziente stesso. (Nel mondo normale questo si chiama condivisione della l'informazione o “sharing in cloud”, un po’ come succede ad esempio con Facebook!). Non parliamo poi degli altri usi (anzi del non uso) dell'informatica in sanità perché la cosa ci porterebbe molto lontano.
E ancora, visto che la maggior parte dei pazienti sono cronici, che senso ha mandarli una volta in una sede e poi in un’altra ed ancora un’altra per poi tornare alla prima, come se fossero pacchi? La continuità della cura si perde, il paziente è frastornato e così anche i medici. Non sarebbe meglio dopo una prima visita far collaborare, anche per via informatica, il MMG e lo specialista? Così il tempo sarebbe ben speso, con grandi ritorni in tema di salute come il QOF inglese ben dimostra. O organizzare degli adatti percorsi per garantire la presa in carico e la salute dei pazienti?
Certo, il pallino passerebbe dai manager ai clinici, dalla amministrazioni alla epidemiologia ma è così e che funziona in tutto il mondo! In Gran Bretagna, ad esempio, nessuno va a fare gli esami, neanche privati, se non li ha prescritti il MMG, il quale ci pensa mille volte a richiederli se non sono necessari. Infatti ogni medico viene monitorato per i numeri delle prestazioni ma soprattutto per i risultati: da questo dipende il suo salario. Insomma si deve arrivare alle valutazioni e le valutazioni le fanno i clinici, non gli amministrativi! Per esempio, i criteri di accreditamento regionali spesso non prevedono la valutazione dei risultati ma solo dei volumi di attività, contraddicendo una letteratura abbondante e circostanziata. “Fare di più non significa fare meglio”, questa è la campagna varata in Italia da Slow Medicine. L’epidemiologia ha un grande ruolo, ora si parla di “geo-localizzazione” delle malattie (l’ha fatto anche la Lombardia) e quindi si dovrebbe sapere a cosa serve e dove serve. In più la medicina di iniziativa potrebbe permettere ai MMG di chiamare i pazienti secondo protocolli testati e riconosciuti. In altre parole, se io ho 100 diabetici che devono fare la glicemia 12 volte all’anno dovrò assicurare 1200 prestazioni, se le prestazioni sono invece 5000 all’anno c’è qualcosa che non torna.
C’è anche il grande problema degli esami che inducono ad altri esami, perché il miglioramento dell’accuratezza delle apparecchiature consente di aumentarne la sensibilità e la capacità di cogliere anche piccole alterazioni, anche di scarso rilievo, ed allora il sistema si complica ancora di piu’ con il ricorso ad ulteriori esami (come appunto succede con le risonanze e TAC). Quante volte un esame diagnostico finisce dicendo “utile controllo a 4 o 6 o 8 o 12 mesi”?.La soluzione non è avere più prestazioni ma più esperti che aiutino nella clinica e decidano. Una volta, ad esempio, su un giornale umbro è stata riportata la notizia che «lo screening gratuito eseguito nel corso della “Giornata della Tiroide” ha rivelato la presenza di una qualche patologia tiroidea nei 2/3 (il 66%!) della popolazione esaminata. La notizia è stata data, con molta soddisfazione, dai vertici sanitari » Forse vogliono dirci che i due terzi della popolazione ha un cancro della tiroide? E quanti sono i decessi dovuti a questa nuova peste? Sempre gli stessi da anni. Riteniamo che forse il risultato andrebbe discusso con esperti perché sembra impossibile e contrario a tutta l’epidemiologia e la letteratura. La questione non è fare di tutti gli screenati dei malati, ma selezionare quelli veri!
Anche per il problema degli esami oncologici, che così tanto colpiscono la popolazione il problema è lo stesso; ancora un articolo di Cartabellotta. Il punto è valutare sempre il costo/beneficio (in termini di salute, non di denaro!) di qualunque procedura (ad esempio la Svizzera non effettua più screening di K della mammella per i problemi riscontrati, anche se questo, a mio parere, è contro le linee guida internazionali). La cosa è molto dibattuta anche sulla stampa non medica sia scientifica , ma una cosa è certa: l’aumento di molti esami ed indagini diagnostiche non ha portato ad una riduzione della mortalità e su questo i giornali seri di medicina tornano sempre più spesso. E sempre più spesso si evidenzia che aumentare l’offerta è un pozzo incolmabile, più aumenta l’offerta più si induce domanda. La domanda dovrebbe essere calmierata con adatti sistemi di audit professionale che valutino le aree a maggiore inappropriatezza, con campagne di stampa volte alla evidenziazione che la medicina non può risolvere tutti i mali, che è impossibile diagnosticare sempre e comunque un qualsiasi disturbo o doloretto. È un problema di mentalità e di organizzazione ma sicuramente aprire la sera e la domenica per fare indagini diagnostiche non è un buon segnale di appropriatezza. Lo ripetiamo, se vogliamo fare una medicina corretta ci vogliono medici competenti a tutti i livelli, meno diagnostica e più percorsi per malattia cronica. Le malattie croniche sono il vero flagello del nuovo secolo e dati provenienti da informazioni della regione Veneto, mostrano come il 20% della popolazione assorba quasi il 70% delle risorse. Quindi meno esami e più percorsi.
O forse tutto è funzione delle statistiche per apparire e non essere? Ma tutti un giorno staremo male e tutti saremo dei vecchietti cronici con tante malattie. Il piano cronicità indica che circa il 50% della popolazione sopra i 65 anni ha due malattie croniche (il 68% della popolazione sopra i 75 anni) ed allora andiamo a impegnare risorse sulla diagnostica invece che sulla presa in carico? Non sarebbe meglio invece che cercare di apparire trattare meglio le cronicità? Il ruolo della politica è di prendere decisioni magari impopolari ma giuste e corrette, non andare dietro alla demagogia. E il ruolo dei tecnici a loro volta non è quello di assecondare la politica, ma di far riflettere con numeri, dati e scienza per poter prendere la decisione più appropriata.
In un cartello appeso nella sala riunioni di una grande multinazionale americana c’era scritto: “without data you are just another person with an opinion”. Appunto, e i dati (ISTAT) sono quelli della figura successiva.
Ovviamente nessuno vuole dire che gli esami diagnostici non servono, ma dobbiamo usarli con oculatezza ed appropriatezza, con la consapevolezza che aumentando l’offerta si ha comunque un aumento ulteriore degli esami e non una loro riduzione. Una cosa è certa, solo lavorando con l’epidemiologia, con l’appropriatezza clinica, (ben diversa da quella amministrativa dei DRG, ICD9 e codici tra ambulatorio e Day hospital e ticket vari), e coinvolgendo le società scientifiche potremmo, non dico risolvere, ma almeno arginare, il problema. Un breccia in un muro la si risolve correggendo il problema , non allargandola.