di Adriano Marinensi – Era una notte di luglio del 1809, quando Papa Pio VII si trovò di fronte un ufficiale di Napoleone, che, violando la Santa Sede a mano armata, gli intimò di rinunciare alla sovranità sullo Stato della Chiesa. Un’ azione brutale rimasta come una ferita nella storia millenaria del Cristianesimo. La risposta fu: “Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo”. Anche noi, che siamo venuti al mondo un paio di secoli dopo, non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo dimenticare almeno alcuni dei fatti più drammatici accaduti durante lo sciagurato periodo della 2^ guerra mondiale. Per esempio, la proditoria aggressione giapponese alla base navale americana di Pearl Harbour, nelle Isole Hawaii. Harbour significa porto ed in quel porto stava ancorata una poderosa flotta, in posizione strategica nell’Oceano Pacifico. Fu proprio di questi giorni, il 7 dicembre di 75 anni fa che il Giappone – legato a Italia e Germania dal Patto Tripartito (RO.BER.TO., acronimo di Roma, Berlino, Tokio, sottoscritto il 27 settembre 1940) – sferrò un proditorio attacco aereo, causando gravissime perdite di uomini e navi. Quell’evento può essere considerato un punto di svolta del conflitto, con l’intervento degli USA di Franklin Delano Roosevelt.Nel nostro Continente, i Paesi dell’Est erano finiti sotto il dominio nazista (compresa parte del Nord), la Francia sconfitta, l’Italia fascista come la Spagna. Oltre il confine orientale, incombeva l’URSS di Stalin. Per l’Europa c’era il rischio di diventare una grande dittatura. In estremo oriente imperversava l’Impero nipponico. Con il Governo giapponese, gli Stati Uniti avevano in corso una trattativa di reciproca non belligeranza. Ma, i generali di Hirohito, mentre trattavano la pace con gli americani, preparavano la guerra. Non sapevano però che l’affronto di Pearl Harbour avrebbe sconvolto il quadro bellico e segnato la successiva sconfitta dei tiranni coalizzati contro la democrazia e la libertà-
Ecco perché non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo dimenticare ciò che accadde quel 7 dicembre del 1941 e neppure il sacrificio dei tanti marinai caduti, in poche ore, sotto le bombe di centinaia di aerei, improvvisamente apparsi nel cielo di una tranquilla domenica prossima al Natale. Dal mare era arrivata una potente flotta formata da ben 6 portaerei con a bordo quasi 400 velivoli da combattimento. Di scorta, 2 corazzate, 2 incrociatori, 9 cacciatorpediniere, alcuni sommergibili e navi da rifornimento. Comandante in capo, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto.Il segnale d’attacco venne lanciato alle 7,50, ora di Honolulu: Tora, tora, tora! La prima ondata colpì gli aerei schierati sulle piste e gran parte della base riportò danni gravissimi. La seconda sempre contro la base aerea; quindi entrarono in azione gli aerosiluranti che si accanirono contro le navi. Per gli USA fu un disastro. Andarono perdute 5 corazzate, 2 cacciatorpediniere, molte le imbarcazioni danneggiate, insieme a 200 aerei resi inservibili. Enormi le perdite umane: 2400 morti e 1250 feriti. Prese fuoco anche il carburante sparso sull’acqua del porto ed esplosero alcuni depositi di munizioni. Una devastazione quasi totale. Tutto avvenne senza alcun preavviso e in poche ore. La grande base militare americana del Pacifico era stata neutralizzata e l’operazione dette slancio alle mire di conquista del Giappone in mare e in terraferma. Il giorno dopo l’aggressione, il Presidente Roosevelt, nel celebre discorso al Congresso, disse: “Il 7 dicembre 1941 è una data che entrerà nella storia, come il giorno dell’infamia. Gli Stati Uniti d’America sono stati attaccati dalle forze aeree e navali del Giappone”. Poi chiese la immediata dichiarazione di guerra. Per le armate americane un impegno poderoso durato 4 anni, prima per contribuire ad annientare il fascismo con lo sbarco in Sicilia (10 luglio 1943), poi il nazismo con lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e la campagna del Pacifico, terminata con la sconfitta dell’Impero nipponico (2 settembre 1945). A Terni, conoscemmo la fine del conflitto quando le avanguardie degli eserciti Alleati entrarono il 13 giugno 1944. Accogliemmo la notizia dell’occupazione di Roma (4 giugno 1944) con entusiasmo, pensando che il tempo delle bombe, dei rifugi antiaerei, del coprifuoco e dell’oscuramento fosse finito. Invece, c’erano ancora i tedeschi in città e dal cielo continuarono a cadere ordigni nei giorni 4, 5 e 6 giugno. Servirono soltanto a rivoltare le macerie, perché della città che avevo visto per l’ultima volta all’alba del 14 agosto 1943, ormai non c’era rimasto nulla. Per primi giunsero gli indiani col turbante, che vidi accampati di fronte al Cimitero di Papigno. Dal 1940, la Curia vescovile era retta da Mons. Felice Borromini (rimarrà sino al 1947). Di lui e del suo alto carisma di uomo e di pastore, narrano le cronache del tempo. Pochi giorni prima della liberazione di Terni, “un militare tedesco, sorpreso a rubare, venne ucciso nei pressi dell’Acciaieria. Rapida scattò la rappresaglia, con una cinquantina di ternani arrestati e subito condannati alla fucilazione”. Li salvò – dice ancora la fonte di stampa – l’autorevole intervento del Vescovo che riuscì ad ottenere la grazia dal Comando delle S.S. I tedeschi avevano occupato la città nel settembre 1943 e insediato il Comando nell’Albergo Marino in Via della Stella. In questa parte dell’Umbria, la più colpita, la guerra, insieme alle rovine materiali e civili, lasciò una eredità poco conosciuta: i campi di concentramento per cittadini compromessi con il fascismo, campi gestiti dagli Alleati. Il più importante si chiamava “R civilian internee camp” ed era collocato nella vasta area dove poi sono sorte le fabbriche di Polymer, Montefibre e Moplefan. Altri due lungo la Flaminia. La lettera”R” stava per “Recalcitrant”, parte da rieducare, parte incorreggibili; e in sigla il campo, circondato da reticolati, era indicato con “PWE R”. Ha accolto diverse gerarchie del fascio (ad esempio, una Principessa dal nome altisonante, Maria Pignatelli di Cerchiara di Calabria). Nel periodo maggio – luglio 1945, vi soggiornarono Rachele Mussolini e i figli Romano ed Anna Maria. Due i “blocchi”, uno per gli uomini e l’altro per le donne. All’interno i reclusi avevano libertà di movimento ed usavano una moneta valida soltanto dentro la struttura. Dalle testimonianze si è avuta notizia di camerate – dormitorio con letti a castello, come nelle caserme; ciascun internato aveva in dotazione un dentifricio, un pezzo di sapone e 20 sigarette la settimana. Il trattamento dicono fosse rispettoso della Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Dalla fine del 1945, ebbe inizio l’opera di liberazione degli internati, tanto che, a metà del 1946, dei quasi 2000 iniziali, ne rimanevano circa 500 (non pochi i pericolosi, inviati nelle carceri italiane). La totale smobilitazione del campo avvenne verso la fine del 1946.