In mostra le armi del bandito Cinicchia. In mostra una collezione di armi e di oggetti appartenuti al leggendario bandito che potrebbero finire per essere esposti permanentemente in uno dei musei gualdesi. Lo ha annunciato l’ex Procuratore della Repubblica di Perugia, Nicola Miriano, nel recente convegno su “Storie di briganti e di montagne, sentieri di spiritualità tra i monti di Gualdo”, nel contesto dell’ultima edizione della mostra-mercato del cavallo, del mulo e del somaro organizzata da Capezza, l’associazione guidata dal presidente Michele Storelli.
Il magistrato emerito, durante il suo apprezzato intervento, ha anche presentato a sorpresa un fucile appartenuto al Cinicchia, al secolo Nazzareno Guglielmi; personaggio che, nella seconda metà dell’Ottocento, imperversò con le sue imprese banditesche nel territorio umbro-marchigiano, in particolare nell’area montana dell’assisano e di Morano di Gualdo Tadino, da qualcuno considerato una sorta di Robin Hood.
Questo è quanto riporta a proposito il Centro Studi Civitanovesi, a firma di Matteo Parrini:
“Come è diffusamente noto, il quinquennio 1860-1865 fu segnato in tutto il centrosud della penisola italiana dal fenomeno del brigantaggio, solo episodicamente collegato a ragioni politiche e molto più spesso a situazioni di degrado socioeconomiche e culturali, che sfociavano in brutale delin quenza. Non del tutto estraneo a questo fenomeno fu il nostro territorio appenninico di confine tra Marche ed Umbria, dove imperversò uno dei personaggi più funesti dell’epoca, oggi ridotto a dare il simpatico e pacifico nome ad un noto ristorante di Monte Alago nel nocerino. Si tratta del brigante umbro Cinicchia, soprannome di famiglia (ereditato da un trisavolo basso di statura, irascibile e molto violento, un po’ come lo fu costui) di tal Nazzareno Guglielmi, nato ad Assisi il 30 gennaio 1830. Dopo aver iniziato a lavorare i campi, si mise a fare il muratore, quindi nel 1854 si sposò con una donna di nome Teresa dalla quale ebbe una figlia, Maria. La crisi occupazione di quegli anni, unita al suo carattere burrascoso, lo portò a frequentare gruppi non raccomandabili e già nel novem bre 1857 fu arrestato per aver rubato ad Assisi (pare che chiese il permesso di salutare prima la ma dre e le morse un orecchio rimproverandola di non averlo corretto in tempo), ma il 20 aprile 1859 riuscì a fuggire e a darsi alla macchia: nasceva così il mito nero del brigante Cinicchia, temuto dai ricchi ed amato dai poveri che spesso finiva con l’aiutare (il dotto e patriota fabrianese Oreste Marcoaldi scrive: «Cinicchia è un gentiluomo, ruba almeno danaro a chi ne ha, esponendo la infame sua pelle»). I gendarmi pontifici allora arrestarono la moglie e la tradussero nel carcere di Perugia, ma lui, vestitosi da gentiluomo, raggiunse un noto caffè borghese e minacciò i presenti di incendiare mezza città se non fosse stata liberata: fu esaudito. Negli anni a cavallo dell’unità d’Italia fu ritenuto responsabile di numerosi delitti tra Marche ed Umbria, sempre braccato dai gendarmi e mai cattura to, anzi aiutato da un gruppo di contrabbandieri e renitenti alla leva di vari paesi montani, soprattutto marchigiani, che entrarono nella sua banda. Tra i crimini più noti che riportano i registri della polizia del tempo va annotato, il 21 ottobre 1863, l’omicidio a Ponte della Croce di Pianello, nell’arnate, del capitano Cesare Bellini della Guardia Nazionale di Valfabbrica (la notizia fu riporta ta addirittura dalla “Gazzetta del popolo” di Firenze). Il capitano, accompagnato dal figlio, era noto per la caccia ai renitenti e a diversi malfattori (tra cui pare anche il Sindaco del paese, tal Angelo Calisti che pare avesse rapporti con Cinicchia), ma una volta catturato, fu pronto a consegnare tutti i suoi averi; la banda decise però di ucciderlo e mentre si gettò nel fiume Chiascio, fu raggiunto da una raffica di colpi di fucile. Il delitto più atroce Cinicchia lo commise uccidendo il fratello Domenico, reo di avere una relazione con la moglie Teresa con i soldi che il bandito dalla latitanza man dava alla moglie. Un giorno Domenico, mentre lavorava alla costruzione della ferrovia Roma Ancona, lo vide sopraggiungere e intuendo il pericolo nel tentativo di eludere l’odio e il rancore, gli corse incontro tentando di abbracciarlo e baciarlo, ma Cinicchia furente si liberò dell’abbraccio e lo pugnalò al cuore dicendo: «Ora vatti a godere i miei soldi all’inferno», mentre alla moglie, che chiese perdono, le furono tagliati i capelli e fu legata per tre giorni ad una pianta. Un’altra volta, presso il suo rifugio a Vallemare nel 1860, uccise con una fucilata un suo uomo, detto Gallinella, sfuggito alla guerra e che cercava di prendere il suo posto, lo seppellì sotto una catasta di legna e poi diede ordine ad un altro, ignaro della vicenda, di bruciarla completamente. Il monaco benedettino silvestrino Don Agostino Guido Biocchi (19141968) nella sua “La valle di Somaregia o Salmaregia” ricorda che la banda operava «al tempo dei nostri nonni; ma da quel che essi stessi raccontavano, non sembra fosse eccessivamente feroce, anzi lo dicevano dotato d’un piz zico di sentimento cavalleresco. La nonna paterna dello scrivente, Orsolina Cerroni, da giovanetta incappò con altri nella banda di Cinicchia. Era circa il 1860, un piccolo gruppo di uomini e donne di cui ella faceva parte tornava da Nocera, guidato da un Giuseppetti di Campodonico, fattore dell’abbadia per conto del proprietario d’allora, noto al bandito, che talvolta di notte e nascosta mente andava a chiedergli rifornimenti alimentari e temporaneo alloggio. Procedendo per la Cle mentina attraverso la spessa foresta, i passeggeri videro all’improvviso sbucar di tra le piante e disporsi immediatamente in posizione strategica sugli alti margini della strada irsuti cef i di terribile aspetto, armati fino ai denti. S’immagini lo spavento. Cinicchia scende sulla strada, avanza truce e guardingo verso gli spauriti raccoltisi insieme. Gli va rispettosamente e silenziosamente incontro il fattore. Riconosciutolo, il bandito, pur rasserenatosi alquanto, gli dice minaccioso «Fattore, spero che nessuno sia fuggito e andato a informare la polizia!». Alle affannate assicurazioni in contrario del fattore, depone in grazia di lui ogni intento ladresco, e dopo breve pausa, grida in tono eroico: «Avanti il fattore e la sua compagnia».
Mentre i poveri viandanti s’incamminano con un sospiro di sollievo, Cinicchia rivolto al fattore esclama «Fattore, bada che se è stata informata la polizia o viene informata adesso, ci rivediamo all’abbadia!». Il fattore lo assicurava ancora, che già i briganti erano spariti nella foresta». Dei crimini della sua banda si parla nei registri di molti Comuni dell’entroterra appenninico umbro marchigiano e non sempre male. Si sa che Cinicchia non voleva che fossero molestati i poveri e così quando un povero contadino di Vallegloria, presso Spello, fu derubato del suo vomere di aratro da un suo bandito, Cinicchia ordinò di riconsegnargli la refurtiva domandando: «Adesso come lavora quel poveretto e che mangia?».
Così pure a due carabinieri che lo ricercavano, trovandosi insieme presso l’osteria “La Pallotta” di Assisi a bere su due tavoli diversi, pagò il conto e quando i due si alzarono per pagare fu risposto dall’oste: «Già fatto, per voi ha pagato il brigante Cinicchia!». Un giorno invece, transitando con un suo compagno nel territorio di Arcevia, ebbe una discussione sull’abilità posseduta nel colpire con la carabina il bersaglio. Infiammatasi la conversazione, per dar prova della sua bravura, il compagno, «veduto da lontano un contadino che, salito su un olmo, ne coglieva le foglie per alimentare il bestiame, spianò contro di lui la propria arma fulminandolo. “ Io, disse Cinicchia, fui disgustato da quell’inutile uccisione, tanto che mi arrestai con un pretesto e mentre il compagno proseguiva, lo punii atterrandolo con una fucilata nella schiena”».
Una notte invece Cinicchia fu circondato da alcuni gendarmi in un campo di granturco, ma uno dei soldati incautamente accese una luce: la tenue fiammella servì di mira al brigante che fece fuoco at terrando l’imprudente, mentre lui se la dava a gambe. Così durante uno scontro a fuoco, rimasto gravemente ferito il cugino, Cinicchia lo uccise per evitare di «perdere tempo con un moribondo». La rapina più eclatante, Cinicchia la commise nel 1863 presso la pineta Capranica (Nocera Umbra), quando, immobilizzata la guarnigione di scorta, assaltò una diligenza che portava l’enorme somma per l’epoca di 150.000 lire in oro per pagare gli operai che costruivano la linea ferroviaria Roma – Ancona. Il Governo mise sulle sue tracce un numero consistente di soldati e carabinieri e tra il 1863 ed il 1864 vennero arrestati, uccisi o condannati quasi tutti i vari membri della banda: Domenico Patuma detto Salvalanima, Giuseppe Ragni detto Ribicchiola, Francesco Venturelli detto Cavalajo, i soprannominati Cacabugie e Maccabei, ed altri, mentre “il Moro” fu impiccato nel 1864. Anche Cinicchia fu infine arrestato e portato nel carcere di Jesi, dove, temendo per la propria testa, riuscì a corrompere la guardia carceraria perugina Moretti, però fu subito catturato insieme al Moro e finirono ad Ancona, dove grazie ai soldi portati da Teresa al suddetto Moretti, pare riuscisse a corrompere i secondini e a farsi dare alcuni strumenti utili alla fuga (lime, seghettini, scalpello, coltelli e roncola), quindi attraverso un foro nel muro si diedero alla fuga (pare dicesse: «Non avrò il processo o Tribunale ormai t’ho fatto fesso»).
A differenza del Moro, pare che Cinicchia sia riuscito a sfuggire alla giustizia, imbarcandosi con passaporto falso (a nome Rossi) dal porto di Civitavecchia per Marsiglia, poi in Brasile, dove sarebbe divenuto un imprenditore edile, ma a seguito di una lite violenta riparò in Argentina, residente in Calle Chacabuco a Buenos Aires, dove costruiva, vendeva ed affittava piccole case, convivendo con una spagnola (che lo depredava dei beni!), e dove sarebbe morto dopo il 1903 (del 1901 è l’ultima lettera autografa alla famiglia), lasciando vivere qui la sua leggenda ed il proverbio (quasi scomparso): «ne hai fatte tante quante Cinicchia»”.