Di Adriano Marinensi – A Terni, come in tante altre parti dell’Umbria, ci sono due modi di vivere: in città e in collina, nel centro urbano e nei centri storici (Stroncone, Collescipoli, Collestatte, Papigno, Casteldilago, Torreorsina, per citarne soltanto alcuni). Due mondi soltanto lontani parenti, seppure eredi della stessa cultura sociale: la civiltà contadina. Non mi sento affatto un vecchio nostalgico del passato remoto, però alcuni retaggi mi catturano il pensiero. E gli affetti.
Per intima sensibilità, preferisco il silenzio al rumore, la tranquillità alla confusione, i suoni tenui alle cacofonie. Se non il silenzio del pastore, almeno quello secondo il buon costume. Prediligo anche l’ascolto alla parola. Per spiegarmi dico, mi disturbano assai le trasmissioni TV dove si parla (e straparla, con i tuttologi a far da maestri) e spesso si sovrappongono chiacchiere alle immagini. Per esempio, mi importunano maledettamente i logorroici cronisti, con gli opinionisti al seguito, che mi obbligano a togliere l’audio al televisore durante le partite di calcio oppure di altri spettacoli sportivi di semplice e immediata comprensione (lo sci, il pugilato, il tennis, ecc.). Spesso faccio volentieri a meno del loro racconto e dell’incommensurabile pensiero degli “spiegatori”. A Parigi, un bizzarro artista ha realizzato un enorme murale, addirittura di 250 mq, che raffigura la sua faccia con un ditone dinnanzi alla bocca, che invita i francesi al silenzio. Occorrerebbe ne dipingesse altri nei principali studi televisivi.
Per decenni, ho condotto una (inutile) battaglia contro i rumori molesti e il traffico stradale (a mezzo stampa e nel Consiglio comunale). Ora vengo a sapere (la notizia è fresca, fresca) quanto segue: sul tema è stata realizzata, a Terni, una “mappatura” dalla quale è emerso che l’inquinamento acustico ha largamente superato la soglia della tollerabilità; e la causa principale va attribuita alla circolazione veicolare. Rumore e traffico, fratelli gemelli. Ciò vuol dire inquinamento alle stelle e salute alle stalle. Perché, l’impatto sulla sanità collettiva e individuale di ogni adulterazione dell’atmosfera, gassosa e chiassosa, è ormai clinicamente ritenuto stressante. Le patologie diagnosticate dal servizio sanitario, attribuibili alla precaria condizione ambientale, fanno da incontrovertibile testimonianza. Parola del Presidente dei medici ternani.
Questo stato dell’arte (cagnarona), a Terni, purtroppo dura da tempo remoto; il solo silenzio, perennemente ascoltato sull’argomento, è quello della classe politico – amministrativa locale che, come si suol dire, non ha mai mosso una paglia, almeno per ridurre la portata della pesante negatività. Ora, tutto il quadro degli interventi, ammesso che qualcuno si prenda la briga di agire, viene rimandato, rimanendo in ascolto della cantilenante promessa del “Piano ambientale strategico”. Intanto, si consigliano mascherine bocca – naso e tappi alle orecchie.
Immersi come siamo in questa società del fracasso, quasi sempre nessuna scelta è consentita. Nell’ambiente di vita non vi sono punti franchi. Ci sono invece i motori ruggenti, il diavolio delle grandi aziende, ci sono i cori latranti e i cani solisti, le officine sotto casa, i decibel sparati a palla dai concerti all’aperto e persino la “musica obbligatoria” nei supermercati; senza dimenticare, sarebbe peccato di omissione, la celebrazione del tempo inutile, consumato dalla schiamazzante movida. E tanti altri “regali” della modernità. Allora le “oasi di pace”, che sanno pure di storia, le devi cercare altrove. A Terni, sui colli. Per esempio, a Miranda oppure a Cesi. In altra età, vi salivo a piedi, godendo dal vivo il paesaggio, il senso estetico della natura gagliarda, i colori dell’autunno che tramonta oppure – per dirla con il poeta – quando “le verdissime fronde invola il verno”.
Cesi, la gloriosa capitale delle Terre Arnolfe, è lassù, sui 440 metri, con il sopramonte che arriva oltre quota 1000. Un ecosistema florido, fatto di selve e di prati, di macchia mediterranea e, quasi, quasi, di raccoglimento. Insomma, il creato a modo suo, senza sofisticazioni. Lo stesso sapore di placidità che si ritrova nel borgo tra le stradine e le ripide scalinate. Stante il sontuoso passato, senti quasi la nobiltà del blasone. Le case affastellate, le piccole piazze, gli archi, le architetture, le Chiese. La storia antica nel paese e in cima al colle quella recente, narrata da un cippo marmoreo che testimonia il sacrificio del concittadino Germinal Cimarelli, caduto per la libertà. Due momenti che si fondono in una simbiosi ideale, allegorie degli aspetti migliori dell’umanità.
Sul lato opposto della conca ternana, c’è Miranda, ad uguale altezza collinare, una volta castello di difesa. Guarda la valle dall’alto e vede tutta Terni, quando il grigiore dello smog la lascia vedere. D’inverno ci trovi soltanto i residenti, anzi i “resistenti”, una razza umana rara e pregiata. Sono quelli che, un po’ avanti con gli anni, ti dicono “qui sono nato e qui morirò”. Si anima d’estate Miranda, quando si popolano le seconde case, per sfuggire all’afa crudele della pianura. Attorno, attorno è montagna, inorgoglita dai grintosi castagni, un tempo produttori di reddito quasi esclusivo; soprattutto le donne scendevano in città per vendere le saporite castagne in piazza del mercato. L’agricoltura rende poco, perché poca è la terra coltivabile. Però, tra le balze scoscese, non è raro incontrare il passo lento del contadino, abituato a rubare campo al bosco e rimasto paziente custode di incerti raccolti.
Nell’esiguo abitato, i passaggi angusti costringono ad un andare contorto, talvolta poco agevole, sino al belvedere posto in fondo alla fila delle piccole dimore che sanno di spontaneo e di pietra. E la convivenza di vera comunità; invece, nell’abitato urbano, il cemento armato ha costruito alloggi per ospitare esistenze sconosciute tra loro, socialmente disarmoniche, che intristiscono le solitudini. Ti sporgi dal “loggione” e scorgi le scatole di latta che circolano in basso, muovendosi convulsamente come le formiche alle quali qualcuno ha calpestato il nido. Sui muri, magari sotto una travatura di legno stagionato, messa su alla meglio tanti anni fa, qualche edicola sacra esprime il messaggio – altrove perduto – della sincera fede villereccia. Che sembra fuori tempo rispetto alla rincorsa dell’uomo moderno verso le materialità, l’avere, il presente.
Certo, il destino dei piccoli centri appare vieppiù incerto. Se n’è discusso in animati convegni, infine al Parlamento regionale, con il camaleontismo della politica. In Umbria, conservare attrattiva alla vita del borgo è condizione pregiudiziale, è problema strategico, per tutelare un patrimonio che non possiamo permetterci di disperdere. Occorre qualcosa in più dell’ambiente naturale, dell’aria fina, dei sapori genuini e dei saperi della memoria. Questo qualcosa in più, a sostegno della vivibilità dei nostri preziosi paesi collinari, va realizzato in fretta, perché il tempo della teoria è scaduto e la pratica sembra ancora di la da venire.