di Adriano Marinensi – Papa Francesco, in viaggio per il Cile, ha mostrato la sconvolgente foto di un bambino giapponese che porta sulle spalle il fratellino, morto durante il bombardamento atomico di Nagasaki. Il 6 agosto 1945, sopra la città di Hiroshima, già all’alba, il sole scintillava nel cielo sereno. Il conflitto mondiale, in Europa, era finito da tre mesi (8 maggio), mentre continuava tra gli Stati Uniti e il Sol levante. Hiroshima, sino a quel giorno, non aveva subito bombardamenti. Il nuovo B 29 americano, loro, i giapponesi, lo chiamavano B – San, cioè il Signor B. Ne erano passati a stormi, in precedenza, senza recare offesa ed eccessiva paura. Figurarsi quindi quel Signor B che, da solo, si stava avvicinando. Forse uno “spione” che andava facendo fotografie per il nemico.
Gli Stati Uniti e il Giappone erano diventati nemici il 7 dicembre 1941, quando gli strateghi dell’Imperatore Hirohito attaccarono proditoriamente la base americana di Pearl Harbour, causando ingenti perdite di uomini e navi. Il Presidente F. D. Roosevelt lo definì The day of infamy. E il suo Paese entrò in guerra contro le forze del Ro-ber-to (l’Asse Roma – Berlino – Tokio). Guerra iniziata il 1 settembre 1939, con l’invasione della Polonia da parte delle truppa naziste. L’atto di inizio è fissato nell’immagine di alcuni soldati mentre spostano una sbarra di confine: sembra un fotogramma qualunque e invece quelli stavano spostando la storia. Cominciò lì il periodo più funesto dell’umanità che trasformò il pianeta in un camposanto senza confini, con quasi 50 milioni di croci, molte senza nome, molte infisse sopra il gelo della neve, nel deserto arroventato, nel mare dove a migliaia, tra navi ed aerei, affondarono insieme ai loro equipaggi. Venne dissipata una incalcolabile quantità di risorse economiche, impiegate per distruggere e poi per ricostruire. Uomini ch’erano stati operai, contadini, padri di famiglia furono mandati ad ammazzate, in un macabro gioco, altri uomini che portavano uniformi diverse e differenti bandiere.
Dunque, Hiroshima, il 6 agosto 1945. I giapponesini frettolosi e le giapponesine dai piedi piccoli andarono al solito lavoro e i bambini a scuola. Non sapevano che dentro quello da essi chiamato il Signor B e dai generali americani Enola Gay, era stata caricata un’arma mostruosa dal nome innocente: Little Boy. Enola Gay e Little Boy giunsero sul cielo di Hiroshima intorno alle 8 del mattino. Neppure un caccia giapponese s’era alzato in volo per intercettarlo: sarà stato un ricognitore. Little Boy l’avevano ideata gli scienziati del “Progetto Manhattan”, avviato sei anni prima, per effettuare ricerche sull’energia nucleare, accelerate dopo la scoperta del fenomeno della fusione e della reazione a catena. Tra i cervelloni, impegnati nel progetto, lavorava l’italiano Enrico Fermi, l’inventore della prima pila atomica. Albert Einstein aveva teorizzato che “l’energia è equivalente alla massa per il quadrato della velocità della luce”. Insomma, messe insieme tutte quante le loro “diavolerie”, s’erano messi a costruire, alcuni paventandone gli effetti da dies irae, la bomba atomica. Un prototipo, per esperimento, era scoppiato poco tempo addietro, mostrando effetti spaventosi. O.K., dissero nell’olimpo guerriero a stelle e strisce.
Visto come stavano andando le operazioni militari nel Pacifico e le ingenti perdite subite dai soldati U.S.A., l’onere della decisione di usare il “mostro” dovette prenderselo Harry Truman, succeduto alla Casa Bianca, a Roosevelt, morto all’improvviso il 12 aprile 1945. Si trattava anche di individuare la città nipponica da trasformare in una macelleria. La scelta conclusiva la fece – chissà, forse inconsciamente – il servizio meteorologico. Disse: Cielo limpido sopra Hiroshima, nuvoloso altrove. Ecco perché, proprio in quel cielo erano arrivati, a grande altezza, Enola Gay e Little Boy.
Gli “ammazza, ammazza” con le stellette avevano saputo dalla scienza che, il risultato distruttivo della bomba poteva essere aumentato, facendola scoppiare, ad una certa altezza, sopra l’obiettivo. Così fu fatto. Alle 8 e un quarto precise l’ordine di sgancio. Venne giù in discesa libera per 43 secondi ed esplose a circa 600 metri dal suolo. Racconta il giornalista Virgilio Lilli, inviato un paio di anni dopo, sul luogo del misfatto, che le Monache del Convento “Maria Ausiliatrice” erano agitate dalla preoccupazione di mettere al sicuro il “Santissimo”. Lo chiusero in una cassa seppellita in giardino. Neppure di Lui ebbe pietà la bomba. Una delle Suore – scrive ancora Lilli – salva per miracolo, dopo l’esplosione – vide la scuola, poco distante, che un minuto prima non si vedeva per le tante casa frapposte, non era più la scuola, ma un enorme mucchio di bambini morti e neri come castagne troppo arrostite”. Uno dei piloti di Enola Gay si fece prendere da un sussulto di coscienza: “Dio, cosa abbiamo fatto”. Avevano fatto un genocidio.
Morti all’istante, i bambini della scuola, al pari di altri 70 – 80 mila sventurati uomini, donne e tantissimi altri fanciulli di Hiroshima. Intanto il cielo appariva oscurato quasi si fosse fatto notte e una pesante nube di povere nera stesa sulla città. Sotto la nube nulla parve come prima: solo macerie ed un vento rovente che spazzava l’aria ad altissima velocità. E’ stato documentato che, nel punto di massimo impatto, in un nanosecondo, la temperatura raggiunse livelli che manco il sole. Parve il primo tempo della fine del mondo. La “stagione nucleare” durò diversi giorni. Migliaia di esseri non più umani vagavano da sembrare anime di colpevoli all’inferno. Loro invece tutti innocenti. In tanti corsero al fiume, però l’acqua era diventata radioattiva e finirono annegati. Le vittime immediate, delle settimane e dei tempi successivi, addebitabili all’ “evento criminoso”, sono state quantificate in 200.000. Nel museo di Hiroshima, c’è una pietra con sopra impressa una figura: è ciò che resta di un corpo “essiccato” dalla violenza dello scoppio.
Dalla città, ora si vedeva il mare, distante diversi chilometri diventati deserto. Per qualche giorno, da sotto le macerie, s’udirono voci accorate. Dicevano: Tasukete kure, per cortesia aiutatemi. Poi tutto tacque. L’apocalisse di morte aveva vinto la vita ed era cominciato un possibile futuro del mondo nel segno dell’orrore. Quasi non bastasse, tre giorni dopo, ancora migliaia di civili uccisi da un’altra atomica, a Nagasaki, con uguale effetto distruttivo. I feroci governanti nipponici, attoniti di fronte a tanto massacro, con un Paese ormai allo stremo, si arresero. L’atto di capitolazione venne firmato il 2 settembre 1945, a bordo della USS Missouri, ancorata nella baia di Tokio. Nel discorso al suo popolo, Hirohito disse (lui, il regista di un conflitto all’ultimo uomo e all’ultimo sangue): “Abbiamo deciso di aprire la strada ad una grande pace per tutte le generazioni a venire, sopportando l’insopportabile e soffrendo l’insoffribile”. Tornava si la pace, ma iniziava anche l’era delle armi nucleari che Papa Francesco ha inserito tra i pericoli del mondo di oggi. Ha detto: “Ormai basta un incidente”. E dietro la foto del bambino, la dedica: “Il frutto della guerra”.