di Francesco Castellini – Anche l’ultima Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro ha terminato i suoi lavori lasciando in bilico la “verità vera” sulla vicenda politica e storica più eclatante della Prima Repubblica.
All’incirca trecento pagine che documentano un lavoro imponente, ma purtroppo il più delle volte caratterizzato da roboanti anticipazioni su svolte investigative ritenute clamorose.
Assolute “verità” annunciate dal Presidente Fioroni, ma, soprattutto, dal più attivo membro Gero Grassi, che non si stanca di percorrere per centinaia e centinaia di chilometri in lungo e in largo la Penisola per diffondere il suo “verbo”, raccontando la recente storia italiana ma, purtroppo, “disinformando” studenti, associazioni, circoli e club.
Ne è convinto Pino Casamassima (nella foto a lato), il giornalista più preparato sulla vicenda Moro, che, vista girare a vuoto la Commissione d’inchiesta alle prese con attività e testimonianze tra il poco serio e il faceto, si è rifiutato di presentarsi a Palazzo San Macuto, sede della Commissione, seguendo l’esempio di Mario Moretti, Valerio Morucci ed altri.
Riservandosi comunque di inviare alla stessa una memoria in cui spiega i motivi del suo rifiuto (l’inidoneità ad indagare nuovamente e inutilmente sul caso Moro, anticipando alcuni punti che Gero Grassi ha utilizzato ed utilizza per portare in giro per l’Italia, la “sua” verità a mezzo della Tv, interviste, conferenze, monologhi).
In tutto trentanove punti di contestazione in cui viene sottolineata anche la “sciatteria e quella cattiva informazione che si sarebbe dovuta evitare a salvaguardia della riservatezza delle indagini e al fine di non inficiare la serietà dell’impegno assunto e profuso quale membro della Commissione nel rispetto della legge istitutiva”.
Bene. Ecco elencate le contestazioni, con l’intento di produrre nei lettori qualche spunti di riflessione. E sperando che l’onorevole risponda pubblicamente, questa volta senza filippiche alla Demostene.
I 39 PUNTI CONTESTATI A GERO GRASSI DA PINO CASAMASSIMA
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“Ho letto e studiato i 2 milioni di pagine del caso Moro: processi e commissioni”. Il numero delle pagine è ben maggiore di 2 milioni. Comunque, assegnando almeno 2’ a ogni pagina, verrebbero fuori 4 milioni di minuti, cioè 66.666 ore. Che lavoro!
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Carlo Bo non è mai stato rettore di Siena, ma di Urbino.
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Kissinger non ha mai detto “testualmente” né nel ’74, né mai – come sostiene Grassi – “Il mio è un avvertimento ufficiale a smettere la politica di apertura al Pci altrimenti l’avrebbe pagata a caro prezzo”.
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Moro non viene fatto scendere dall’Italicus da agenti dei servizi segreti ma da due funzionari del ministero degli Esteri da lui retto in quel momento.
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Non è vero che “la polvere pirica usata per piazza Fontana è la stessa di piazza Loggia e Italicus”! (a disposizione – a detta di Grassi – di Gladio).
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È pretestuoso usare una delle tante scritte sui muri del ’77 (contro Publio Fiori, gambizzato) per annunciare l’uccisione di Moro. Si sa che non c’era “papavero” democristiano che non fosse minacciato sui muri (Kossiga docet).
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Non è vero che Gallinari (che nel suo guazzabugliesco pamphlet che Grassi spaccia per suo libro mentre si tratta di stralci di audizioni riportati alla rinfusa scambia per Maccari) fu fatto evadere dai servizi e da Hyperion!
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La faccenda di Antonino Arconte (il gladiatore agente G. 71) e del documento consegnato a Beirut, firmato 2 marzo 1978, in cui si chiedeva la mobilitazione per la liberazione dell’ancora non sequestrato Moro, è stata ampiamente chiarita e sbugiardata. Ma Grassi ne fa uno dei suoi punti cardini nella sua “requisitoria” che porta in giro per l’Italia.
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Non è vero che il percorso di Moro da via del Forte Trionfale 79 cambiasse sempre, anzi, era sempre lo stesso, con una sola variante in caso di intasamento del traffico! Lo dice il responsabile delle scorte del ministero dell’Interno Guido Zecca, che Grassi tira in ballo capovolgendo le sue parole (basta leggere le deposizioni di Zecca e degli abitanti di via Fani).
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Le Br tagliano le gomme del fioraio Spiriticchio perché non intralci l’agguato l’indomani proprio perché sanno che Moro passerà da via Fani perché è quel che risulta dall’inchiesta fatta dalle Br dopo che Bonisoli aveva visto un giorno scendere da lì Moro e la sua scorta. Grassi utilizza pretestuosamente questa conoscenza affermano che le Br erano state avvertite da “qualcuno” (delle istituzioni) che Moro quella mattina avrebbe fatto quel percorso.
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Giuliano Conforto non era “il capo del Kgb in Italia”, ma un agente.
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Affermare che l’Austin Morris (una macchinetta) fosse stata messa dai Servizi lì, in via Fani, per impedire alla 130 di Moro di trovare una via di fuga sulla destra nell’agguato significa avere doti di “preveggenza”: sapere cioè che lì, proprio lì, si sarebbe fermata la 130 di Moro – con tutte le variabili che un’azione avrebbe potuto comportare. Che idioti poi questi Servizi a usare una macchinetta come quella e non una ben più ingombrante Volvo SW! C’è poi la considerazione che usare una macchina “di servizio” sarebbe stato idiota. Ne sarebbe stata rubata una apposta per quella azione.
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Il tamponamento della Fiat 128 di Moretti c’è stato. I fendinebbia posticci, in caso di tamponamento, non si rompevano come sostiene l’ignorante (automobilistico) Grassi, ma si piegavano, proprio perché posticci (accadde a me proprio con una Fiat 127 tamponata da un’Alfa: i miei fendinebbia posticci si piegarono).
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Non è vero che una sola arma esplose 48 colpi in via Fani: è una menzogna che, seppur smentita dalle perizie, Grassi continua a usare!
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Non c’era bisogno di un super killer – come sostiene Grassi – perché la distanza fra i Br e le macchine era di centimetri, non di metri, e chiunque non avrebbe sbagliato da quella distanza. Ecco anche perché riescono a evitare di colpire Moro!
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Marini non “viene sparato” come dice testualmente Grassi, che sa bene come il teste Marini sia stato smentito su questo punto da una fotografia.
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La lettera a La Stampa di Torino del “moribondo” motociclista Honda è stata ampiamente dimostrata come una bufala tratta da Piazza delle Cinque lune, film di Martinelli uscito nelle sale 6 anni prima!
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Camillo Guglielmi, alla data del 16 marzo dell’agguato, non faceva parte dei Servizi: ci sarebbe entrato solo nell’agosto successivo.
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Non è vero che “Musumeci mandò Guglielmi in via Fani per proteggere le Br”.
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Non è vero che l’ambasciatore sapesse in anticipo che a rapire Moro fossero state le Br! Dice Grassi: “L’ambasciatore inglese in Italia scrisse un telegramma alle 9,10 per informare il premier britannico che le Br avevano rapito Moro, ma le Br rivendicarono l’attentato solo il giorno dopo”. Una dichiarazione che sull’ignavo uditorio che ascolta il suo “verbo” ha un grande effetto. Uno dei punti di maggiore suggestione. Peccato che anche questo sia falso! Le Br rivendicarono il rapimento un’ora dopo l’agguato: esattamente alle 10,10 con una telefonata all’Ansa di Roma.
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Dice Grassi: “Dopo l’agguato, Licio Gelli disse: “Il più è fatto”. Dove si trova questa dichiarazione del capo della P2?
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Grassi gioca con la figura di Steve Pieczenik, riportando solo quello che lo stesso psichiatra americano avrebbe poi qualificato come “movie”, cinema, fiction, al giudice Palamara nella sua rogatoria. Le affermazioni “Abbiamo ucciso noi Moro, io, Cossiga e Andreotti” furono fatte da Pieczenik per lanciare un suo libro (e poi, appunto, smentite).
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Noretta Moro non suggerisce di cercare via Gradoli a Roma a Cossiga ma a un funzionario del ministero dell’Interno.
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In via Gradoli non c’è nessuna “scena raccapricciante” (sic!). La scopa non è messa in piedi per favorire il citofono della doccia contro una mattonella incrinata, ma è stesa sulla vasca da bagno, come risulta dalle fotografie scattate dalla polizia scientifica.
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Toni Chichiarelli non era “il vice capo della banda della Magliana”. É una affermazione molto suggestiva, ma non veritiera.
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La segretaria di Mino Pecorelli non era la moglie di Antonio Varisco – come dice Grassi – ma Franca Mangiavacca (che era anche la sua donna).
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Non è vero che “Massimo Carminati ha ucciso Mino Pecorelli”.
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Quando è stato ucciso Roberto Peci non era “un ragazzino di 23 anni”, ma un prossimo padre di famiglia di 26 anni.
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Non è vero che sono stati “dimostrati i legami delle Br con mafia, camorra e ’ndrangheta”.
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Non è vero che le Br chiesero a Marco Barbone di uccidere Tobagi. (Qui Grassi dimostra tutta la sua ignoranza sulla storia delle Br).
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Morucci non ha mai detto che “Sossi si ‘sbracò’ davanti a noi”, semplicemente perché entrerà nelle Br solo due anni dopo il rapimento Sossi.
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La perizia non dice che Moro fu ucciso fra le 9 e le 10, ma che morì in quell’arco di tempo.
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Grassi dice che Moro non fu ucciso nella R4 (ma chissà dove, non lo dice). Porta argomentazioni perlomeno risibili sul piano peritale, anche se – come sempre – molto suggestive sul piano emozionale per un pubblico “ignorante” (che non sa).
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Grassi afferma che Moro non è stato due mesi in un loculo come la sua prigione perché le sue articolazioni risultavano in perfetto stato. (Perché mai spostarlo?)
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La morte di Maccari non è affatto “misteriosa”, ma dovuta a un infarto in carcere.
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Curcio non ha mai affermato che Moretti fosse un infiltrato.
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Il colonnello Umberto Bonaventura morì d’infarto, ma per Grassi “mi dicono giudici seri che esiste un’erba, chiamata Latticitilatis purpurea (di cui pure il web si rifiuta di trovare traccia) che avvicinata al corpo di un uomo gli procura un infarto e non lascia traccia”. (E chi è Agatha Christie in confronto?).
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Dulcis in fundo, Dalla Chiesa non è stato ucciso dalla mafia, ma, ovviamente, dai Servizi, per impedirgli di usare – prima o poi – il vero memoriale Moro.
A riprova della consapevole maldestra strategia di Grassi, nell’informare l’opinione pubblica a mezzo di cinque appuntamenti sul video-blog di Claudio Messara ‘Byoblu’ del 13 dicembre 2017, si ritiene consono aggiungere:
– il 39simo ‘punto di contestazione’. Maestria apprezzabile quella del solerte commissario nel ricostruire la vicenda Moro, ben lungi dal raccontare la “verità” sull’evento terroristico più importante della storia d’Italia, di esclusiva competenza della magistratura competente.
“Non pochi buchi neri – specifica il Presidente della Commissione Fioroni – che vediamo ancora una volta avvolgere il caso Moro, non solo dal punto di vista giudiziario, ma anche culturale e politico”.
Affermazioni di cui Grassi avrebbe dovuto fare tesoro ed agire di conseguenza, ma come sempre ha preferito cimentarsi in un ‘tour de force’ che probabilmente continuerà sino al raggiungimento del tanto agognato traguardo. Quale, dal momento che la relazione conclusiva della Commissione si è limitata ad individuare una “verità dicibile”, già da tempo nota?
MA VENIAMO AD UN PUNTO MOLTO IMPORTANTE DELLA VICENDA
Al temine del secondo ed all’inizio del terzo appuntamento, a ‘Byoblu’, Gero Grassi dichiara: “Il bar Olivetti – nei pressi di via Fani – è uno degli epicentri del rapimento Moro. Per la storia i Carabinieri, che non trovano i due proprietari del bar, sono comandati dal Colonnello Antonio Cornacchia, al quale ho contestato l’appartenenza alla P2.
Lui ha negato ma, nella relazione di Tina Anselmi – Presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2 –, risulta essere iscritto. E qui si apre un altro discorso. Tina Anselmi dice: “Voi non potete capire il caso Moro se non capirete prima cosa è la P2”. Quale l’obiettivo da conseguire? Interloquire sul bar Olivetti, in quanto epicentro del rapimento Moro, o mettere all’indice il Colonnello Cornacchia, indicandolo come piduista e far nutrire delle riserve sul suo operato quale Comandante del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma?
Sta di fatto che nel corso del suo strano, enigmatico e deviante soliloquio, a seguito di affermazioni chiaramente allusive, evita, forse scientemente, di soffermarsi sull’argomento principe, il bar Olivetti, e di chiarire la sua importanza quale “uno degli epicentri del caso Moro”.
Disillusi gli ascoltatori, inspiegabilmente privati degli sviluppi su quanto anticipato sia in merito al Bar che sull’operato, per il Grassi, censurabile, del piduista colonnello Cornacchia.
Dichiarazioni le sue, non suffragate dal minimo riscontro, anzi, smentite dal resoconto stenografico dell’audizione del generale Cornacchia di mercoledì 12 ottobre 2016, davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare al Palazzo San Macuto a Roma:
Ed ecco ciò che il Parlamentare Gero Grassi, grande esperto del caso Moro e conoscente personale del Presidente ucciso, promotore e membro della Commissione d’indagine Parlamentare “Moro 2” conclusa il 13 dicembre 2017, racconta in 5 appuntamenti su Byoblu, definendola la verità giudiziaria sull’evento terroristico più importante della storia d’Italia.
Ep. 3 – Il 16 marzo del ’78 noi ragazzi, poco più che ventenni, vissuti senza l’incubo della guerra, vissuti nella libertà e nella democrazia, diventiamo immediatamente vecchi e iniziamo ad avere paura del futuro. Gero Grassi racconta il rapimento di Aldo Moro, avvenuto alle 9 del mattino del 16 marzo 1978, in via Fani.
“Che cosa succede? Che il bar “Olivetti” è uno degli epicentri del rapimento Moro scoperto da questa Commissione. Per la storia: i carabinieri che non trovano i due proprietari del bar “Olivetti” sono comandati dal generale Antonio Cornacchia al quale io ho contestato l’appartenenza alla “P2“. Lui dice di non essere mai stato iscritto, ma nella relazione Anselmi della “P2”, Antonio Cornacchia risulta”. E qui si apre un altro discorso, perché Tina Anselmi, primo Ministro donna della Repubblica italiana dice: “Voi non potete capire il Caso Moro se non capite che cos’è la P2. Uno Stato che lavora contro lo Stato“.
Commento di Antonio Federico Cornacchia
15 giugno 2018 alle 12:46
Essere o apparire? A tale dilemma, al continuo conflitto dell’uomo, il cantastorie, “esperto del caso Moro”, per aver letto “più di 5milioni di pagine”, privilegia, quale migliore soluzione, l’apparenza, cioè il corrispondente del desiderato non del reale che attiene all’essere. Al termine del secondo e dell’inizio del terzo ‘appuntamento’ a Byoblu, il nostro afferma: “Il bar Olivetti è uno degli epicentri del rapimento Moro. Per la storia i Carabinieri che non trovano i due proprietari del bar, sono comandati dal Colonnello Antonio Cornacchia, al quale ho contestato l’appartenenza alla P2. Lui ha negato, ma nella relazione di Tina Anselmi risulta essere iscritto. E qui si apre un altro discorso. Tina Anselmi dice: ”Voi non potete capire il caso Moro se non capirete prima cos’è la P2”.
A smentirlo in toto è il resoconto stenografico dell’audizione del generale Cornacchia a Palazzo San Macuto, sede della Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro nella seduta del 12 ottobre 2016.
Grassi – “In ordine al bar Olivetti. A Lei, che era molto vigil… io faccio una domanda: chi lo proteggeva il bar Olivetti, generale Cornacchia?
Antonio Cornacchia – “Una bella domanda ma non facile la risposta. Sul bar Olivetti solo indirettamente ci siamo interessati e non nel corso del caso Moro. Le indagini iniziate nel febbraio del ’77 (tredici mesi prima dell’eccidio di via Fani, come per dire: in tempi non sospetti), riguardarono una Società Ra.Co.In. (Rapporti Commerciali internazionali), che forniva armi a gruppi eversivi (…) L’amministratore delegato…. al Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma…indica come trafficante di armi… Olivetti…(che i carabinieri individuano e identificano quale gestore del Bar omonimo, unitamente alla socia in affari…..). Si eseguono (come da relazione da me firmata, già acquisita dalla Commissione parlamentare ed inserita nei relativi atti), una ventina di ordini di cattura. Ma la perizia psichiatrica del prof… nel ritenere l’amministratore delegato “personalità mitomane con condizione psicopatica di vecchia data….” manda liberi tutti gli arrestati e le indagini perdono mordente.
Presidente Fioroni – “Perché lei non chiese l’arresto di Olivetti e perché i Carabinieri non portarono al Sostituto Procuratore… Olivetti per farlo interrogare “?
Antonio Cornacchia – “Non emersero elementi a carico dell’Olivetti…”.
Grassi – “ Le chiedo una cosa: 871 che cos’è? Le ricorda qualcosa? Lei ha una bella memoria.
Antonio Cornacchia – “ Non credo che siano gli intellettuali di sinistra che firmarono per il Commissario di PS Calabresi?
Grassi – “Allora l’aiuto io. E’ il numero della sua tessera di iscrizione alla P2. Mi faccia capire lei perché si scrive alla P2? Chi La porta alla P2? Non mi dica che l’ha chiamata Gelli perché non è vero e io lo so”.
Antonio Cornacchia – “Nessuno mi ha portato né sono iscritto ”.
Grassi – “Lei non è iscritto alla P2?”
Antonio Cornacchia – “No. Risulto iscritto. Sarei stato scritto. Su questo ho contestato Tina Anselmi che era Presidente della Commissione P2, perché a distanza di anni (esattamente cinque – 1978 – ‘83), ha voluto mettere in forse e in dubbio il mio operato. Le dissi, infatti: “Se avesse letto ciò che ho scritto durante i 55 giorni…, non avrebbe rilasciato certe interviste…. Mi riferisco ad una informativa datata 5 aprile ’78 (sequestro Aldo Moro durante), con cui descrivevo la situazione politica, sociale ed economica del Paese e dell’ordine pubblico e come le Br affiliavano i loro adepti”. (Recepita, invece, dall’allora Ministro degli Interni Francesco Cossiga).
Grassi – “Io non ho detto “.
Antonio Cornacchia – “Lei mi deve far parlare. Ho conosciuto Gelli per avergli fatto anche una perquisizione su mandato del Procuratore Capo della Repubblica di Roma….”.
Presidente Fioroni – “La tessera chi gliel’ha data?”
Antonio Cornacchia – “Nel libro da me scritto, che state consultando, l’ho spiegato molto bene. Anche a seguito del procedimento disciplinare non si ritenne veridica la iscrizione alla P2 che sarebbe avvenuta nella primavera dell’ ’81, quindi, dopo tre anni dell’agguato di via Fani”.
Grassi – “Prendo atto”.
Antonio Cornacchia – “Posso puntualizzare? Ho una dignità di uomo, di carabiniere e di Comandante del Nucleo Investigativo dei CC di Roma. Mi si attribuisce… come affiliato della P2 nel ’78, durante il sequestro Moro, quindi, avrei ordito (….). ancorché risultato iscritto soltanto dopo tre anni, nella primavera dell’ ‘81”.
Grassi – “No, va tutto bene. A posto”.
Ed allora, perché lasciarsi andare a delle insinuazioni gratuite, arbitrarie, inopportune e a delle affermazioni suggestive ed allettanti da indurre a uno stato di commossa partecipazione (specie soggetti sprovveduti), ma non rispondenti a verità e, soprattutto, non di propria competenza: “ …ho contestato l’appartenenza alla P2..” ‘Contestare’, soprattutto nel linguaggio giuridico, assume specifico significato: “comunicare all’imputato – ovviamente da parte dell’Autorità Giudiziaria – che un fatto costituente reato è a lui attribuibile”. Cosa avrebbe dovuto o voluto ‘contestare’, ‘comunicare’ al generale Cornacchia? l’appartenenza alla P2? Ma, ammesso che si fosse accertata la sua appartenenza a tale loggia massonica, risalente alla primavera ’81, perché ritenerla illecito, addirittura reato da doverlo ‘contestare’, come subdolamente asserito? Si intendeva mettere all’indice il generale Cornacchia? Infatti, considerare “Il bar Olivetti uno degli epicentri del rapimento Moro”, senza specificarne il perché, non potrà che essere stato un espediente, ambiguo, atto alla bisogna. Il silenzio, che ha fatto seguito, tanto inspiegabile quanto misterioso, certamente non servirà, questa volta ad affascinare, a suggestionare ma ad inficiarne la credibilità.
Aspirare a vivere di notorietà è legittimo purché vestito di onestà, semplicità e buon senso, non d’infondatezza, d’inattendibilità. Pirandello sosteneva che nella vita le persone indossano le maschere per conformarsi alle regole e ai luoghi comuni della Società, anche perché vivendo e pressato da una società dell’immagine, si viene giudicato in base…agli abiti che si indossa. Ma quando le maschere, il cui uso assicura l’apparenza, prendono il sopravvento, hanno un risvolto crudele, annullano la personalità dell’individuo.
(Antonio Federico Cornacchia)
Post scriptum o codicillo
Le tre audizioni, al cospetto della Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro del 5 e 12 dell’ottobre 2016 e del 3 novembre successivo, davano la possibilità di incontrarci. Mi colpiva la Sua veemenza, invero, singolare, anzi, appassionata nello svolgere il ruolo di membro della Commissione stessa; un modus agendi che, sulle prime avevo modo anche di apprezzare, per poi “prenderlo con le pinze” e connotarlo da necessaria riserva mentale. Non vedeva l’ora di cimentarsi nel rivolgermi domande a chiarimento di fatti, situazioni e circostanze inerenti al mio operato quale ufficiale di polizia giudiziaria svolto in un contesto storico, tramandato come gli “Anni di piombo”. Dovette attendere il suo turno all’audizione successiva, del 12 ottobre.
Al termine della quale, in un breve téte à téte, “fuori del coro”, direbbe Mario Giordano, all’ingresso del Palazzo San Macuto, sede della Commissione Parlamentare, negava di aver rifiutato l’invito rivoltoLe dal Prof. Francesco Contò – Preside della Facoltà di Economia di Foggia – ad una conferenza che avrei dovuto tenere presso detto Ateneo, in quanto “il generale Cornacchia era pidduista”. Accettava, però, il mio tanto da vederci impegnati nel pomeriggio del 30 novembre del 2016, ovviamente sul Caso Moro, nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza della Capitanata, senza contraccolpi di sorta sulla mia presunta appartenenza alla P2. Mi sbagliavo. Il 13 dicembre successivo ecco cimentarsi, in numero cinque appuntamenti, alla TV privata “Byoblu”, per esporre le proprie conoscenze su di un argomento, (sempre sul caso Moro), facendo leva su di un bagaglio di esperienza che lo aveva visto alle prese nella lettura, come più volte affermato, di oltre cinque milioni di pagine. Per destare, forse, maggiore attenzione, ecco tirare in ballo – mero cavallo di battaglia o, direbbe Pino Casamassima “punto cardine della requisitoria”, – il Bar Olivetti di via Fani:
“Che cosa succede? Che il bar “Olivetti” è uno degli epicentri del rapimento Moro scoperto da questa Commissione. Per la storia: i carabinieri che non trovano i due proprietari del bar “Olivetti” sono comandati dal generale Antonio Cornacchia al quale io ho contestato l’appartenenza alla “P2“. Lui dice di non essere mai stato iscritto, ma nella relazione Anselmi della “P2”, Antonio Cornacchia risulta”.
Affermazione anche suggestiva ma alterata, non veritiera. Per assicurarsi credibilità: era necessario mettere alla berlina e, addirittura, denigrare l’operato dei “i carabinieri che non avevano trovato i due proprietari del bar Olivetti”, per mettere all’indice il loro comandante perché “pidduista?” Bambinesco, avventato espediente. A sbugiardarlo sia la registrazione stenografica delle tre audizioni sia, e soprattutto, l’ informativa, a mia firma, acquisita agli atti della Commissione Parlamentare, diretta alla Procura della Repubblica di Roma circa le indagini svolte anche sul Bar Olivetti sin dal febbraio del 1977 (13 mesi prima del rapimento di Aldo Moro!), che portarono all’arresto di oltre venti persone. Sarà stata oggetto di lettura e fatto parte dei milioni e milioni di pagine attentamente esaminate? Ne dubito.
E, come se non bastasse, ecco in veste di showman nella Sala Consiliare di Monteleone di Puglia. Era a conoscenza che mi aveva dato i natali? In tal caso non avrebbe dovuto privilegiare un atteggiamento più equilibrato, adeguato alle circostanze, come l’ambiente stesso suggeriva? Del tutto ignorato il buon senso che pur avrebbe dovuto farLe da guida. D’altronde, per il cliché da tempo consolidatosi, (per Pirandello: la maschera), avrà potuto provare soddisfazione, sentirsi gratificato nel proporre anche ai miei compaesani la “storiella”, ulteriormente travisata, circa il numero progressivo della iscrizione alla P2. Le rammento, però, che all’audizione del 12 ottobre 2016, nel darLe la risposta, non esibivo alcun foglietto per rendermi conto che “871” fosse il numero civico della mia abitazione. Sarà riuscito anche a puntare il dito e, forse, a mettermi all’indice, (puerile, momentaneo se non apparente godimento) ma, a carissimo prezzo, da rendersi oltremodo inopportuno e ridicolo. Di talché stento a credere che si sia reso conto di avere esagerato nel persistere a voler travisare una “verità storica”, consacrata in una registrazione inconfutabile e da tempo di pubblico dominio.
“Intelligenti pauca”, dicevano i nostri Padri latini, cioè “a buon intenditor poche parole”. Non sembra, però, che il “commento”, puntuale ma, soprattutto, significativo ed eloquente in calce al contenuto dei cinque appuntamenti a Byoblu, sia servito alla bisogna. Non vorrà dirmi di non aver avuto il tempo di prenderne visione?
Nel Medioevo e nel periodo generalmente definito “cavalleresco”, per il torto subito, si ripiegava sulla “singolar tenzone”. Che ne direbbe di un incontro-conferenza al fine di fare chiarezza, al cospetto, ovviamente, di un’assemblea, anche nutrita ed interessata? A Lei la scelta.
(Antonio Federico Cornacchia)