Sabato sera al teatro Morlacchi un concerto che ha lasciato un po’ sconcertati gli Amici della Musica di Perugia, che proprio tantissimi non erano. Il concerto di Alexander Melnikov si presentava già problematico di per sé, con tutta la seconda parte dedicata ai Preludi e Fughe di Shostakovic.
Per giunta prima dell’inizio la presidente della Fondazione Perugia Musica Classica, Anna Calabro, si presenta sulla pedana dello spazio teatrale nella forma in cui lo ripensò l’architetto Calderini. Accanto a lei un giovanottone simpatico, Enrico Bronzi, che già conosciamo come validissimo violoncellista, e che sarà il nuovo direttore degli Amici della Musica. Ad Alberto Batisti, intellettuale di prim’ordine succede un pragmatico, un esecutore di livello internazionale, un formidabile diffusore di musica, (Trio di Parma), un programmatore eccezionale (Triste, Portogruaro, con qualche problema).
Nell’era dei cambiamenti necessari, sottolinea Anna Calabro, stiamo scontando, noi Amici della Musica, la diminuzione delle fonti economiche: un terzo di quanto precedentemente erogato dalla Fondazione Cassa di Risparmio e competente Ministero, quest’ultimo più attento alla quantità che alla qualità dei prodotti. Di conseguenza l’appello è rivolto a chi siede in platea: aiutateci a diffondere, a trovare empatie, ad attirare verso la musica energie e forme di collaborazione. Soprattutto ora che gli Amici della Musica si sono fatti carico della crescita dell’Orchestra da camera di Perugia, un nucleo storico della città che affronta la sua prova storica di allinearsi ai livelli della grande musica. E proprio in dicembre ci sarà una prima verifica con Bronzi solista e direttore.
Da parte sua il giovane parmense arpeggia con umiltà sul suo impegno preso con estrema serietà, chiedendo al pubblico la fiducia necessaria per affrontare un percorso non da poco: ed evoca inoltre i Lari perugini, nella figura indimenticabile di Franco Buitoni, uno di quei personaggi irripetibili della musica intesa come impegno morale, sociale e civile. E ce ne fossero ancora!
Attaccare un concerto con un cappello iniziale così impegnativo mette il pubblico in una certa agitazione. Quando entra Melnikov ci sono ancora aggiustamenti di umori e commenti a fior di voce. Probabilmente il grande pianista russo avverte il clima e si lancia a velocità forsennata sul primo dei suoi numeri, la Fantasia Wanderer di Schubert. In un paginone che è tutto un equilibrio classico, un pulsare ritmico dattilo-spondeo di liceale memoria, una sorta di motore stravinskiano, un algoritmo traducibile solo nel rispetto delle forme. Per un formidabile vincitore di concorsi come Melnikov tutto si traduce in un affannoso formicolio tecnico, un correre sempre in avanti, inciampando in sovrapposizioni di linee che si scontrano tra loro, anziché risolversi in una continuo incremento di luminosità, fino a nebulizzare quella fuga finale che l’autore voleva martellante come il destino. Risolvere Schubert con il dominio della tecnica è una soluzione che può anche piacere e gran parte degli ascoltatori ne rimane convinta.
L’accostamento di un brano così smaccatamente Biedermeier con il Brahms meditativo delle Fantasia op. 116 consente a Melnikov di tratteggiare con un pianismo fresco di dentifricio tutto quello che concerne il vortice tecnico dei numeri più appariscenti. Gli va riconosciuta tuttavia la capacità di meditare sui brani più intimi fino a tratteggiare nell’Intermezzo in mi minore una setosa concentrazione timbrica semplicemente magistrale.
Ed ecco, attesissima, la seconda parte col temuto Shostavovic. Pubblico inquieto, con gente ancora in piedi a chiacchierare mentre il pianista si siede sullo sgabello. Tanto da costringerlo ad aspettare, lanciando occhiate verso la platea che non sono proprio amichevoli. Pure bisogna mettersi a posto in attesa di affrontare l’impegnativo cammino. Si da la fattualità che Melnikov queste raccolta di dodici dei ventiquattro numeri che compongono l’op. 87 se l’è suonata ovunque e l’ha anche incisa in disco. Pure, con signorile modestia, appoggia lo spartito sul leggio e si fa girare le pagine da Corinna Ruppert, una delle più certificate collaboratrici dell’Associazione. Quando finalmente inizia la litania dei preludi e fughe, per la prevista ora e cinque minuti di ascolto, avvertiamo subito che Melnikov è a casa sua. Percussività lucente, smalto nitido, leggerezza di accenti, tocco sbalzato alla polvere di marmo, un saltellare ritmico implacabile per quell’humor nero alla Gogol di cui Shostakovic è insuperabile evocatore. Atteggiamento apocalittico-integrato, come si diceva negli anni Settanta, ma anche altissima letteratura “schermata”, una risposta sonora agli “Esercizi di scrittura” di Queneau, che sono del 1947, mentre i preludi-fughe risultano elaborati tra il 1950 e il ’51. Guerra fredda tra Occidente e regime sovietico, lo slalom di Shostakovic tra Zdanov, la Pravda, Stalin e il gulag, con la necessità di adottare una scrittura enigmatica, un polistilismo ermetico, che nel caso di un autore che era anche un grande pianista, si traduce in una delle più straordinarie raccolte del Novecento storico. Se ne sarebbe potuto interessare anche Italo Calvino.
Convince pienamente Melnikov che, con incredibile resistenza, gira una pagina dietro l’altra, aprendo orizzonti sonori bizzarri, umorali, catastrofici, irridenti, beffardi. Un campionario di piccole, irose bellezze che ci sentiamo felici di aver condiviso con un tale interprete. Il quale, crucciato, non offre alcun bis.
Stefano Ragni