“Sono stato chiamato alle armi il 5 ottobre 1937, a ventuno anni, e destinato al 27° reggimento artiglieria da campagna a Milano. Qui restai pochi giorni e poi venni trasferito alla scuola allievi ufficiali di Brà, in Piemonte, dove ebbi la possibilità di fare l’ attendente ad un tenente che aveva famiglia. Venni congedato il 10 Agosto 1938,
in anticipo, credo a causa della mia condizione di orfano di guerra. Mi ero sposato da pochi mesi , il 29 aprile 1939 quando, il 3 settembre 1939, venni richiamato alle armi. Il 10 giugno del 1940, data di entrata in guerra, mi trovavo a Firenze e fui subito mandato sul fronte francese. Terminata la breve campagna francese restai in Italia, in diverse città del nord. Ricordo di aver partecipato alla occupazione della Iugoslavia e anche là le sofferenze non sono mancate . Poi finalmente vi fu una legge che favoriva le vedove della prima guerra mondiale che permetteva di far tornare a casa i propri figli che erano militari in qualsiasi posto si fossero trovati. E così, nel mese di giugno del 1941, fui rimandato a casa in licenza illimitata. L’ 8 Aprile 1942 nasceva mia figlia Maria Giovanna e pochi mesi dopo venivo nuovamente richiamato . Fui mandato a Casale Monferrato, dove si stava formando un gruppo di artiglieria pesante, e lì trovai anche mio fratello Angelo. Riguardo al fratellastro Angelo , sarebbe da scrivere tutta una storia a parte se si disponesse di notizie più ampie e dati certi. Angelo Marcantoni , da tutti chiamato “Baffino” ( a sinistra nelle foto) , era nato a Sorifa di Nocera Umbra nel 1922 , venne chiamato alle armi nel gennaio del 1942, appena ventenne . Nel marzo del 1943 fu spedito in Grecia, dove svolse prevalentemente il servizio di conduttore di mezzi pesanti, e della qual cosa andava fiero. L’ 8 agosto 1943, giusto un mese prima del pernicioso armistizio dell’ 8 settembre, venne mandato nell’ isola di Cefalonia , dove, il 17 settembre, venne gravemente ferito alla gamba destra da mitragliamento aereo durante la nota battaglia della divisone Acqui contro i tedeschi.
Nel suo foglio matricolare, se non si tratta di errore, risulta che solo in seguito venne catturato dai tedeschi e cioè il 16 dicembre. Comunque sia, Angelo scampò miracolosamente alla morte nel combattimento e nel seguente massacro dei sopravvissuti del settembre 1943. Gravemente ferito e dolorante fu trasportato in un campo di concentramento a Giannina sulla terraferma greca e quindi trasferito nell’ aprile del ‘44 in un campo di concentramento in Germania, dopo un viaggio lungo e tormentato . Angelo racconta con semplicità e senza alcun accento di autocommiserazione che, durante il viaggio in autocarro, veniva assistito dai commilitoni prigionieri , i quali perfino lo sorreggevano quando doveva muoversi per i normali bisogni corporali. Venne liberato dalle truppe americane il 2 maggio 1945. Angelo Marcantoni, che dagli anni sessanta vive a Roma, racconta e sostiene di essere stato ferito da un aereo inglese. Tale convinzione appare alquanto sorprendente e comunque la circostanza risulta inverosimile.Infatti durante i combattimenti di quei giorni , nessuna forza alleata venne in aiuto degli italiani, quindi è da escludere che alcun aereo inglese avesse operato sull’ isola, mentre i tedeschi che sull’ isola erano in netta inferiorità numerica fecero un uso determinante dell’ aviazione contro la divisione Acqui. I sopravvissuti alla strage di Cefalonia sono veramente pochi ( a parte i noti capi della rivolta, gli ufficiali Apollonio , Pampaloni, etc. ), e forse Angelo Marcantoni potrebbe essere l’ unico dell’ Umbria. Continua Enrico nel racconto.
Dopo alcuni mesi fummo spediti in Grecia dove fummo adibiti al servizio di “guardia coste”. Di nuovo un pizzico di fortuna. Era sopravvenuta una legge che prevedeva il congedo dei militari che rivestivano la qualifica di “capo azienda agricola”; e così, grazie ad un conoscente presso il ministero che mi preparò i documenti necessari, ricevetti presto l’ ordine di tornare a casa. Ricordo di essere partito il 17 giugno 1943, per arrivare a casa il 27 luglio ( il 25 luglio era caduto Mussolini . Nds ). Il viaggio fu molto disastroso e per più di una volta vi fu il pericolo di lasciarci la pelle. Io non sono superstizioso e a molte cose non ci credo, ma al destino si. Stavo per partire per tornare a casa, casualmente ero uno degli ultimi di una colonna di 400 soldati, se ne caricavano 40 per vagone, restammo in 8 senza posto sul treno e quindi ci rimandarono indietro. Quella tradotta fece pochi chilometri, la sera stessa venne bloccata in una galleria dai ribelli e incendiata. Non si salvò nessuno. Durante il mio viaggio di ritorno, un treno tedesco, sebbene fosse arrivato dopo del mio in una stazione, ripartì prima di noi e poco dopo saltò in aria per una bomba sui binari. Tornato a casa potei dedicarmi ai miei affari e alla famiglia. Ebbi il secondo figlio Rinaldo il 23 marzo 1944 . Il 22 Aprile successivo cominciava una nuova odissea con la deportazione in Germania. Ero stato a casa di mia madre, quando poi ritornavo ho incontrato una squadra di tedeschi e fascisti che mi hanno fermato, e un maresciallo mi ha chiesto da quanto tempo non vedevo più i ribelli ,così li chiamavano loro. Io risposi che da qualche giorno non si vedevano più in giro, ma in quel momento venne fuori uno in borghese dicendomi che due giorni prima lui ed altri erano stati a casa mia ed io avevo dato loro del pane e del vino.
Infatti era vero, ma io non l’ avevo riconosciuto: era questo il famoso Quattrini, che era stato catturato dai partigiani e che poi se lo erano fatto scappare. Con questo, io ero in una brutta situazione e non so come mai non mi abbiano fucilato come erano soliti fare. Mi obbligarono ad andare con loro verso le grotte, dove questo Quattrini sapeva che si erano rifugiati dei partigiani. Cercavano il sentiero per andare a questa grotta chiamata “Degli Angeli”. Io cercavo di deviarli in un’ altra via, ma poi questo Quattrini si è orizzontato e li ha portati sul punto giusto. Sono scesi per il piccolo sentiero, il Quattrini in testa, appresso a lui un fascista e un tedesco, tutti armati. Ad un certo momento ho sentito gridare: Eccoli! Ci sono! Venite fuori! Sono usciti con le mani alzate un ragazzo di nome Paolo, che era dell’ alta Italia, e uno del nostro paese di nome Armillei Bartolomeo detto “Lello”. Il Paolo proseguiva fin dove eravamo noi e invece Lello si gettava di sotto tentando di scappare, ma nella caduta si rovinava tutto e doveva arrendersi. Io ed altri fummo obbligati ad andarlo a prendere e portarlo fino alla spaccio, dove era il comando tedesco.Dopo averlo interrogato lo fecero riportare sul posto e lì lo fucilarono. Mentre si svolgeva tutta questa manovra mi è capitato a solo questo famoso Quattrini e allora gli ho detto: Se l’ altro ieri ti ho dato del pane e del vino ti ho forse fatto del male? Lui mi ha risposto: No, ma perché hai detto di non riconoscermi? Ed io: Perché non ti avevo riconosciuto. Lui: E allora basta, non parliamone più. Infatti fu di parola perché mentre ci interrogavano a tutti, uno alla volta, gli altri quasi tutti furono picchiati, invece io non venni toccato. In quel giorno stesso fummo tutti costretti a presentarci alla caserma di Nocera Umbra, e da qui cominciava una nuova odissea. Prima di sera ci portarono a Gualdo Tadino e fummo rinchiusi nel convento dei Salesiani.
Ci tennero qui per tre giorni, finché il quarto ci caricarono di nuovo sui camion e ci trasferirono a Perugia. Qui ci rinchiusero nello stabilimento della “lana angora”, guardati da sentinelle giorno e notte. Eravamo in tanti e non si sapeva con precisione che fine ci avrebbero fatto fare. Chi aveva delle conoscenze riusciva a farsi mandare a casa, ma il momento era difficile e pieno di incertezza. Fortunatamente poterono farci visita spesso i nostri famigliari che ci portavano qualcosa da mangiare, altrimenti era fame e basta. Trascorsero così quindici giorni, fin quando una mattina di nuovo sui camion ci trasferirono a Firenze. Il giorno appresso, come un branco di bestie, ci caricarono su dei vagoni bestiame, e dopo un lungo e travagliato viaggio, arrivammo in Germania, in provincia di Hannover. Si seppe poi che eravamo internati come deportati politici. ( La qualifica arbitrariamente attribuita dai tedeschi fu “internati militari “. Nds) Fortunatamente anche questa volta non andò troppo male, perché ci poi ci portarono in un ufficio collocamento, dove arrivarono dei contadini e ci mandarono a lavorare con ognuno di loro . Noi compaesani cercammo di restare insieme per poter mantenere i contatti. Io fui mandato in un paese chiamato Varenals, insieme a mio fratello Feliciano e ad Alessandro Orazi. Là trovammo anche un’ altro italiano che lavorava presso un fornaio, era siciliano e si chiamava Stefano. La famiglia presso cui lavoravo era composta da due fratelli, uno sposato con due bambine, l’ altro era invalido e per questo non prestava servizio militare; quello sposato, della mia stessa età, si trovava a casa perché ferito in Russia. Inoltre c’era la madre di questi, una donna anziana che in casa comandava tutti. Racconterò un episodio molto buffo. Questa donna mostrava verso di me un’ ira terribile e mi odiava in tutto e per tutto. Benché io non comprendessi ancora la loro lingua, dai gesti potevo capire che imprecava sempre contro di me. Un giorno capitò in casa un loro parente , un maresciallo di marina, che conosceva bene l’ Italia e parlava anche un po’ d’italiano. Io gli raccontai questo fatto e lui mi confermò che era vero che la padrona mi odiava, perché aveva perso il marito nella prima guerra mondiale ed era stato ucciso proprio dagli italiani. Allora spiegai che io ero orfano di guerra e che mio padre l’ avrebbero ucciso i tedeschi ( Il padre, Rinaldo Leonardi, morì all’ ospedale di Bologna nel 1918 a seguito di gravi ferite riportate negli ultimi mesi della grande guerra . Nds) . La donna comprese tutto e da quel giorno le cose cambiarono del tutto. Posso dire che fui trattato bene da quella famiglia, sia per il mangiare che per tutto il resto, infatti mangiavo a tavola insieme a loro. Naturalmente dovevo mostrarmi attivo nel lavoro. Trascorreva il tempo.
Si sapeva che la guerra non andava bene per i tedeschi, ma loro apparivano molto fiduciosi e speravano sempre nella loro vittoria finale. Durante l’ inverno, quando in campagna c’è poco da fare, mi mandavano a lavorare nei boschi insieme a tanti altri prigionieri polacchi e russi. Di domenica si faceva festa e approfittavamo per andare in un altro paese chiamato Vesendorf, a cinque chilometri di distanza, dove erano i nostri compaesani, Angelo Agostini, Armando Ferri e Giuseppe Serrani. In primavera si sapeva che gli alleati stavano occupando tutta la Germania ed infatti giunsero nella nostra zona il 25 aprile 1945. Fu per noi tutti un grande sollievo sapere che la guerra stava per finire e che si potesse finalmente tornare a casa e vedere che cosa era successo nel nostro paese; infatti, da quando eravamo partiti non avevamo più avuto notizie delle nostre famiglie e neppure loro le avevano ricevute da noi, perciò non potevano sapere se noi eravamo morti o vivi. Per ordine degli Americani fummo radunati in campi di concentramento, dove dovemmo aspettare il nostro per essere rimpatriati; cosa che avvenne i primi di agosto. Il viaggio di ritorno durò tre giorni e così si giunse a casa il giorno 9. Eravamo un bel gruppo di compaesani. Soltanto uno aveva avuto la triste sorte di non poter ritornare, cioè Pasquale Muzi , di cui noi sapevamo già che era deceduto in ospedale in seguito a una grave malattia.
Enrico Leonardi, nato a Sorifa di Nocera Umbra nell’anno 1916 e deceduto nel 1999, ha lasciato questa preziosa testimonianza nell’ambito di un manoscritto di memorie più ampio che abbraccia quasi tutta la sua vita.
Pietro Nati