Di Adriano Marinensi – Dieci anni fa, il 2 di aprile, ufficialmente alle 21,37, moriva Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla. Nel certificato di morte, redatto dal prof. Renato Buzzoletti, si parla di “shock settico e collasso cardiocircolatorio irreversibile”. Era nato a Wadowice, in Polonia, nel 1920 ed eletto Papa il 22 ottobre 1978.
E’ stato il Pontefice della nuova frontiera, interprete innovatore della dottrina, “servitore di Cristo e dell’umanità”. Malgrado la terribile malattia, è rimasto ad abbracciare la sua Croce sino all’ultimo, consapevole che “la vita non ha momenti privi di senso, se è tesa a dare senso alla vita degli altri”. Ed agli altri Giovanni Paolo ha dedicato il lungo Pontificato. Per questo, l’opera e l’annuncio sono destinati a percorrere la storia, come lo sarà l’apostolato di Papa Francesco. Pellegrino vigoroso e autorevole, ora sta anche nella gloria dei Santi. All’indomani della scomparsa, un quotidiano di Cracovia scrisse : “La sua agonia è stata la più bella Enciclica sulla sofferenza, la malattia, la morte”.
Ha portato una parola di fede, di coraggio e di giustizia in diverse parti del mondo, soprattutto tra gli umili e gli ultimi, chiedendone a gran voce il riscatto. Una personalità di massimo rilievo nel XX secolo che – si disse – “lascia un vuoto percepito, con uguale sensibilità anche dai non credenti”. Un giornale non cattolico, all’indomani della scomparsa, usci con questo titolo: “Non se ne farà un altro”, volendo significare la sua straordinaria e irripetibile statura religiosa ed umana. La morte produsse una piena di sentimenti verso una figura di Pontefice che non potrà confondersi nella memoria del passato e invece rimarrà il quella dei posteri.
Il fascino dell’uomo ormai anziano che ha attratto milioni di giovani, diventati fedeli alleati nel diffondere la morale evangelica, l’ideale arduo che impegna la vita. Un fenomeno sorprendente, forse all’insegna di ciò che il Cristo disse ad Andrea e Simone : “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. Lo ricorderemo pure per quel gesto, quasi sacrale, di baciare la terra all’arrivo in ogni Paese visitato. E per gli Atti apostolici, le Encicliche, i discorsi sempre pieni di significati, di insegnamenti tratti dalla dottrina sociale della Chiesa.
Ventisette anni sul soglio di Pietro gli sono stati utili per servire il mondo e la verità. Parlava di pace e di carità cristiana proprio lui che veniva da un Paese, la Polonia, martire dolorosa del nazismo prima e del rigore comunista dopo. Subì persino l’oltraggio dell’attentato sacrilego, il 12 maggio 1981, in Piazza S. Pietro, per mano del turco Mehmet Alì Agca, attentato che scatenò una ridda di ipotesi su presunte complicità internazionali.
Ad Assisi rivelò la volontà dialogante e la fiducia di riconciliazione tra le diverse confessioni religiose, tra la Chiesa e il mondo moderno, per accelerare i tempi del riconoscimento ecumenico dei valori dello spirito, in un’epoca che mostra di seguire di più gli interessi materiali. Un Pontefice che entra in una Moschea ed in una Sinagoga non s’era mai visto prima. Di sicuro volle dare un segno forte delle indicazioni emerse dal Concilio Vaticano II, con grandi aperture, a sostegno della comune volontà di pace. Fu eroico durante l’ultima parte della vita terrena, quando il disfacimento fisico gli impose il Calvario. Fece sue le parole di un poeta polacco perché ben sapeva che non doveva andare “dietro a sé stesso con la Croce, ma dietro al Salvatore con la propria Croce”.
Io c’ero quel 19 marzo 1981, quando il bianco elicottero si posò sul terreno dell’ex stadio di Viale Brin, a Terni. C’ero durante la visita del Papa alle Acciaierie, il casco da operaio in testa quasi fosse, ancora giovane lavoratore, tra i metalmeccanici di Polonia. C’ero dinnanzi al Palazzo comunale, insieme al Sindaco Giacomo Porrazzini e nel salone della Curia, dove il Vescovo Bartolomeo Santo Quadri fece gli onori di casa. Lo salutarono, sul piazzale della fabbrica, il Presidente dell’IRI Pietro Sette e l’operaio Roberto Giovannelli a nome del Consiglio di fabbrica. “La Chiesa – affermò nell’occasione – ha molte cose da dire all’uomo che lavora”. E aggiunse : “Non si fa onore all’etica umana se il lavoro diventa un mezzo di sfruttamento dell’uomo, un pretesto per profitti smodati, una occasione di ingiustizia”. Fu una giornata di enorme emozione e partecipazione da parte della gente di Terni e dell’Umbria.
Per i funerali, in Piazza S. Pietro, l’ 8 di aprile, officiati dal futuro Pontefice Joseph Ratzinger, arrivarono due milioni di fedeli; 200 le Delegazioni ufficiali, provenienti da tutto il mondo; 27 maxischermi furono installati nel centro di Roma. A vegliare sulla cerimonia funebre provvidero 15.000 uomini delle forze dell’ordine e più di 8.000 volontari. Gli Stati Uniti ebbero la diretta televisiva delle tre emittenti nazionali; diretta pure in tutti i Paesi europei; copertura totale persino per le TV arabe Al Jazira e Al Arabiya. Un evento mediatico da grandi numeri, a dimostrazione dell’interesse e dell’affetto dell’umanità intera per Giovanni Paolo il Grande – così lo definì il Cardinale Angelo Sodano. L’ultimo addio con il canto solenne, uguale a quello per ogni defunto : “In Paradiso Ti accolgano gli Angeli, al Tuo arrivo Ti accolgano i martiri e Ti conducano alla Santa Gerusalemme”. Poi, la sepoltura nella Grotta Vaticana, dentro una triplice bara di cipresso, di zinco e di noce.
Quel 2 aprile del 2005, al termine del percorso terreno, varcando la soglia della speranza cristiana, di sicuro avrà implorato, come Cristo crocifisso : “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”.