I colori dell’Umbria nel volume La Terra promossa (con la o)
di AMAR
Nella Bibbia, Libro della Genesi, la Torre di Babele è una parabola contro la superbia dell’umanità che, con quella torre, ebbe la presunzione di sfidare Dio. Nel tempo remoto, forse immaginario, per celebrare la propria potenza, gli uomini decisero di innalzare un edificio che arrivasse fino al Cielo. Dio punì l’alterigia con il caos delle lingue, provocando il crollo della colossale costruzione
Gli studiosi sostengono ci fosse in Babilonia, una torre vera, fatta costruire, nel VI secolo a.C., da Nabucodonosor, in omaggio ad un nume. Aveva alla sommità il tempio a lui dedicato ed era alta 90 metri. A Babilonia, secondo la leggenda, ci fu anche una regina, di nome Semiramide, bellissima, vagheggina degli svaghi d’amore. Dante la giudicò malamente e la mandò all’Inferno nel girone dei lussuriosi. Semiramide fece allestire i famosi Giardini di Babilonia, una delle 7 meraviglie del mondo antico. Pare che per lei e per il suo parco verde, costruito lungo i gradoni di un enorme palazzo, la realtà fosse un po’ diversa.
Però – simbolicamente – sembra accoppiare la volontà politica di una sovrana ad una grande città, abbellita da accessori naturali. Potrebbe essere l’insegnamento antico per i programmatori moderni che però l’hanno recepito solo in parte. Cioè, come faceva comodo agli interessi dei palazzinari, sodali loro. Teoria: Risparmiando territorio urbano, si può disporre di ampi spazi liberi alla base dei grattacieli, innalzati selvaggiamente nelle megalopoli. Nella pratica palazzinara, le Torri di Babele sono innumerevoli, i Giardini di Semiramide soltanto in aree residuali.
Gli skyscrapers sono sorti fitti quanto i funghi d’autunno nel bosco e invece i boschi – giardini sono rimasti sulla carta. Dal che, costruisci, costruisci, gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani e i vecchi hanno finito per ritrovarsi prigionieri del cemento, dentro una alienante urbanizzazione, priva dei fondamentali principi di convivenza. Visti dall’alto, sono oggi moltissimi i luoghi di vita dove i grattacieli svettano come ambiziose Torri di Babele, dentro e tra le quali l’attività quotidiana si muove frenetica e si affanna. E le aree verdi, disegnate dai profeti delle città verticali, si sono perse per strada.
La rincorsa al costruire sempre più su, verso il cielo, come a Babilonia, ha riempito le metropoli e pure le città di medio calibro, di edifici, oggi inseriti nel guinness dei primati. La megacostruzione più alta del mondo sta a Dubai, nel Golfo Persico. Si chiama Burj Khalifa, altezza 829 metri s.l.m., con 163 piani, 57 ascensori e una superficie calpestabile di 344 mila metri quadri. Ad uso turistico, offre due spettacolari affacci al 124° e 148* piano, per amanti di emozioni forti. Ci sono voluti 6 anni per mettere in piedi questo gigante che dicono sia visibile da quasi 100 km di distanza.
Si tratta di un campione del mondo in attesa di essere battuto dalla Jeddah Tower, in Arabia Saudita. Nel progetto è prevista una altezza quasi fantascientifica: un chilometro. Dunque, un mostro famelico destinato ad inghiottire decine di migliaia di persone. E per guardare dal piano terra l’attico, occorrerà un binocolo di straordinaria potenza, oltre ad un equilibrio da astronauta.
Stando dentro una di queste madri di figli giganti (perciò chiamata megalopoli), mi sia concesso di raccontare replicando, l’immaginaria (mica tanto) giornata di vita e di lavoro di un arabo saudito (meglio esaurito), colà abitante al 60 piano e lavorante nell’ufficio ubicato altrove al 40 piano. Il tizio si alza la mattina, imbocca l’ascensore e fa in tempo a mangiarsi un panino durante la discesa a livello della strada. Non è escluso, anzi è probabile, che debba salire a bordo, in successione, di alcuni mezzi pubblici per raggiungere il “travaglio usato”.
Arrivato a destinazione, gli occorrerà un altro ascensore per ascendere al piano e ottemperare ai suoi obblighi occupazionali. Salvo, a fine giornata fare il lungo e defaticante percorso inverso. Per lui, l’unica moderna ancora di ormeggio può essere il lavoro a domicilio; altrimenti, nel giro di qualche anno, in tempo ancora di sua mezza età, causa lo stress dell’andirivieni dall’alta collina al piano e dal piano all’alta collina, per il saudito – esaurito sarà Kaputt.
Ora il “dirottamento narrativo” per scrivere di un interessante pubblicazione, firmata da Giampiero Raspetti: La Terra promossa (non promessa). L’ho trovato pieno zeppo di riflessioni intorno ad un tema che ci riguarda: le ricchezze delle quali è dotato il “comprensorio meridionale”, parte parimenti eccellente dell’Umbria. C’è nel volume una rassegna fotografica dedicata prevalentemente– mi viene da scrivere – all’arte del territorio e dell’ambiente naturale.
Cerco di spiegarmi meglio. Quando si parla di testimonianze artistiche, il pensiero si ferma alle opere pittoriche, scultoree, all’edilizia di pregio, espresse dal genio dell’uomo. Scorrendo, adagio, adagio, La Terra promossa e la sua collezione fotografica, ho scoperto che esiste pure un patrimonio artistico dipinto dalla natura con i colori dell’arcobaleno. Ne fanno parte l’ambiente, il paesaggio, il profilo suggestivo dei piccoli borghi ritratti sulle creste dei colli, tra verdi cornici e l’urbanistica spontanea della civiltà rustica e genuina. E’ il riepilogo dei richiami culturali e civili di popoli previssuti, bozzetti sorprendenti di esistenze remote. Primeggia la Valnerina, parte pregiata dell’Umbria; primeggia il carisma di S. Valentino, venerato dall’afflato e dal culto popolare.
Si tratta, qua e là, di allegorie panoramiche che richiamano forme estetiche originali poco conosciute. Ed allora le rocche, insieme all’edilizia spontanea contadina, alle “fioriture”, alle ombre nascoste dei vicoli fatti a gradoni, le vedute prospettiche; ed ancora i retaggi del tempo fuggito, i castelli, alcuni rimasti icone secolari in mezzo alla terra vergine. I borghi solitari ormai a vigilare il vissuto nella semplicità dei costumi e delle usanze locali. Sono testate d’angolo per uno sviluppo che sappia di pacifico messaggio, di mutuo sentire, di solidarietà. Nessuna Torre di Babele.
Ritroviamo nella “fatica” editoriale di Raspetti e nel compendio a colori di Marco Ilari, l’acqua elemento essenziale dell’Umbria: i fiumi, i laghi, i bacini con le brume infreddolite. Il Velino innamorato precipita nella Nera e crea il sontuoso spettacolo che fa dire a George Byron “impareggiabile cateratta, orribilmente bella!” C’è, dentro lo “spettacolo” sintetizzato nella fotocronaca, il richiamo che, all’uomo moderno, chiede rispetto, tutela e valorizzazione per le tradizioni popolari, anch’esse parte viva della cultura ragionale.