CITTÀ DI CASTELLO – Un concerto “tutto d’oro” ha chiuso la cinquantunesima edizione del Festival delle Nazioni. In pedana una formazione orchestrale con un nome non certo commerciabile, ma con una carica comunicativa eccezionale. Ieri sera sulla pedana del san Domenico era schierata la Filarmonica della Boemia meridionale. E già non è facile intendersi su cosa sia la Boemia, a meno che non intendiamo rifarci all’invasione dei Galli Boi che, in età di Impero romano, trasmigrarono proveniendo dalla Baviera. C’è poi la Selva Boema che divide Praga da Vienna e ci furono i re di Boemia, dal mitico Ottocaro a Carlo a Rodolfo. Tutti alchimisti in odore di Golem.
I francesi del Settecento complicarono tutto inventandosi una Boemia sotto le sembianze di un paese da Arcadia, popolato di poeti e di artisti. Che poi furono i bohêmiens, artisti fasulli che invasero la Parigi della rivoluzione del 1830 e finirono nell’opera di Puccini.
Per tornare al concreto questa orchestra, fondata nel 1891, opera nella città di Budweis, ma se lo scrivete in lingua ceca è un tantino più complicato.
Per apprezzarla bisogna ascoltarla, perché il suo suono è semplicemente voluttuoso.
Sono i leggendari archi cechi a imprimere questa tinta violacea che riesce perfino a impastare, a inglobare in sé le emissioni dei fiati. E’ un corpo acustico pulsante e per fortuna è diretta da un maestro che è anche un violista provetto, anzi un virtuoso dell’archetto, Jan Talich.
Lo abbiamo apprezzato subito nel tono semplice e sobrio con cui ha cominciato a concertare la sinfonia in sol minore di Frantisek Antonin Roessler. Un musicista della metà del Settecento, attivo tra le corti dell’area ceco-tedesca, fino a una puntata felice a Berlino. Per farsi apprezzare meglio Roessler assunse anche il nome italianizzato di Rosetti: all’epoca faceva incremento di popolarità. A metà del secolo che abbiamo appena passato un grande maestro perugino, Gianluca Tocchi fece di tutto per farne apprezzare la produzione, disponendo revisioni per le trasmissioni radiofoniche, la mitica terza rete, e bussando, invano, alle porte della Sagra Musicale Umbra.
I tempi non erano maturi, ma la sinfonia che abbiamo ascoltato ed apprezzato, non va oltre il livello medio di una produzione legata ancora agli schemi della fruizione cortigiana. Nel primo tempo ci sono buoni spunti, un primo tema scattante e un inciso in sol minore, la tonalità patetica per eccellenza, che rollano sotto il motore dello Sturm und Drang, e altri tre movimenti in cui si consumano cose di un certo interesse, con qualche incapricciamento di corni e oboi. Piccola cosa, ma fa parte dell’orgoglio nazionale.
Nel numero successivo Talich ha impugnato il suo violino, non sappiamo se lo Stradivari del 1729 o il Gagliano di una sessantina di anni dopo e ha cominciato a suonare la Romanza op. 11 di Dvorak. L’abbiamo sentita poche sere fa qui al san Domenico suonata dal Quartetto Athenäum, ma questa versione è ovviamente più sontuosa, soprattutto per la cavata con cui la sollecita Talich. Musica sentimentale al massimo livello, anche un po’ piagnona, ma questa è la cifra connotativa di Dvorak quando vuole esprimere il suo infinito amore per la sua terra.
Anche il successivo pezzo, la Meditazione di Suk sul corale di san Venceslao è una replica della versione degli Athenäum, ma in questo caso la polpa è, se possibile, ancora più sugosa, più palpitante, più profondamente interiorizzata. Si tratta da una parte del fatto che Suk era il genero di Dvorak e dall’altro che la melodia del santo costituì una sorta di Canzone del Piave del popolo ceco, martoriato in modo straziante da due guerre.
Si chiude col ritorno a Dvorak. Quello della Suite Ceca op. 39, un suggerimento di Brahms e un affondo a mani piene nei ritmi popolari, dall’iniziale Pastorale che è semplicemente fragrante, alla polka, al valzer nella accezione ceca (soudeska), al finale, un contorto furiant che si aggroviglia in dinamiche trascinanti.
Reazione del pubblico degna di un magnifico concerto, di una orchestra che si è fatta amare a prima vista e di un direttore eccellente.
Stefano Ragni