Di Adriano Marinensi – Siamo in tempo d’estate e, sotto l’ombrellone, si usa oziare in letture leggere, senza troppo impegno, spulciando nel gossip. Gossip di persone e di cose. Di cose, come ad esempio (forzando un po’ il termine), i casi della Cascata delle Marmore che di vicende curiose e intricate ne ha vissute parecchie. Da secoli ormai, con la bella stagione, eccoli i giramondo, sfilare, quasi in processione, d’innanzi al grande capolavoro dell’uomo e della natura, per ammirare una delle tante meraviglie che l’Umbria può offrire. Ammirano e stupiscono i giramondo. Il salto è gigante e George Byron, con la sua magica penna, ha tracciato questo furioso ritratto: “Odi frastuono d’acque! Alto Velino, nel precipizio, che coi flutti asperse, piomba, con fulminea rapidità, luce, spumeggia, scuote l’abisso”.
Molto tempo prima Virgilio – Eneide, libro VII – scrive: “Est locus Italiae in medio, sub montibus altis… E’ dell’Italia in mezzo e dei suoi monti, una famosa Valle che d’Ansanto si dice. Ha quinci e quindi oscure selve e, tra le selve, un fiume che per gran sassi rumoreggia e cade e sì rompe le ripe e le scoscende che fa spelonca orribile e vorago”. In tal modo si esprime il sommo Poeta che – a parere di Trilussa – visse a Roma, “sotto il buon Augusto, nel tempo de’ li dei falsi e bugiardi”. Gli studiosi, in quella valle, nelle oscure selve, nei gran sassi, hanno ritenuto di identificare la rupe della Cascata. Oggi sono in tanti i suoi “fantastic” e lo erano sin dall’epoca del Grand Tour. Cos’è il Grand Tour? In estrema sintesi, è stato definito “un viaggio per imparare a vivere”, per scoprire cultura. E per fare shopping nel prezioso mondo dell’artigianato d’arte italiano. Cominciarono verso la metà del XVII secolo i giovani dell’aristocrazia europea, inglesi in primis, a mostrar fame di conoscere. L’Italia tra le mete più ambite. Per le fanciulle di rango divenne di moda girare il nostro Paese, magari accompagnate da qualche segaligna zia nubile, a garanzia di guarentigia verso focosi latin lover. Goethe ci scrisse addirittura un libro: Viaggio in Italia.
Lungo l’itinerario del Grand Tour c’era pure la Cascata delle Marmore. D’altro canto per i paesaggisti dal pennello miracoloso e i rimatori teneri di cuore – quel che ardì di fare Curio Dentato, dopo la metà del 400 – aveva stupende immagini da immortalare. Ardì di fare un taglio profondo (il cavo curiano) sopra il ciglione delle Marmore per liberare la Sabina dalla pestifera palude. Quelli che si dilettano di mitologia la raccontano in tutt’altro modo, ma sono dei vagheggini della leggenda.
Loro sostengono che c’era una volta un pastorello di nome Velino, il quale, affacciatosi dal balcone dei Campacci, due passi dal Lago di Piediluco, vide in fondo al precipizio, una fanciulla di rara bellezza e di nome Nerina. Lei stava asciugando al sole le bionde chiome; Velino rimase senza fiato e percosso da straordinaria passione. Nerina però respinse i suoi pruriti amorosi, talché il frustrato pastorello chiese soccorso a Cupido. Il dio fece cadere la bellona nel fiume della valle (Valnerina, appunto) da dove la trasse Venere, trasformandola in Ninfa delle acque. Nerina rimase ugualmente ostile a Velino e lui tante lacrime pianse per quella pena da creare un altro fiume a monte, che si gettò di sotto. Alla fine, mutati i sentimenti, per secoli, vissero così abbracciati, felici e contenti. Ed ebbero anche una figlia che chiamarono Cascata delle Marmore.
Non molto felici e ancor meno contenti furono i ternani e i reatini, sin dall’indomani dello scavo curiano che non riuscì a risolvere l’impaludamento del grande lago sabino. Mentre il deflusso delle acque causava allagamenti nel territorio sottostante e – almeno così sostenevano i romani – esondazioni del Tevere funeste per la capitale. Una convalida si ritrova nelle Antiche Riformanze di Terni. Vi si legge: “I fiumi non avean argini bastanti a contenere la piena dell’acque; straripato il Tevere, sì fattamente allagò Roma, nella vigilia di Natale, che non v’era rimasta via o rione che non fosse inondato con danno immane degli abitanti”.
Cominciò, nei secoli successivi, la bega infinita tra Terni e Rieti. Talvolta a norma di legge, sul filo dell’arte dialettica (con due “azzeccagarbugli” di fama quali erano Cicerone e Aulo Pompeo), altre volte a lancia e spada per l’intervento dei guerreschi Capitani di ventura d’epoca medievale. Ancora nelle Antiche Riformante: I ternani che non volevano fosse approfondito il primitivo canale, si misero di numerosa sentinella dentro la Rocca di Monte S. Angelo. Arrivarono i reatini e la espugnarono. Nell’Interamna fu convocato l’Arringo e il banderaro, un po’ fumino, Giandimartalo di Vitalone ordinò la riconquista al grido di “A Marmore, o si vince o si muore”. Poco dopo, ecco arrivare da Perugia Braccio Fortebraccio da Montone per riportare, d’imperio, l’ennesima pace tra le parti.
Furono in molti ad invocare il quasi divino potere papale: Santità, pensaci tu! Ci pensò Gregorio XIII e ordinò lo scavo d’altro canale (cavo gregoriano); ci pensò Paolo III e ulteriore opera si costruì (cavo pietrino) per l’ingegno di Antonio da Sangallo il giovane; ci pensò Clemente VIII e il cavo curiano, ampliato in lungo e in largo, divenne cavo clementino. Anche Urbano VIII e Pio VI si dettero da fare, a vario titolo, per risolvere i problemi della Cascata e ognuno, a sua gloria, ci mise una marmorea epigrafe. Il libro di Torquato Secci, pieno zeppo di immagini della Cascata, racconta una curiosità: il ruolo di enorme serbatoio, giocato in antico, dal Cor delle Fosse, nei pressi di Marmore, una cavità di circa 60.000 metri quadrati, profonda 30 e capace di contenere sino a due milioni di metri cubi liquidi.
Quando il mondo diventò avido di energia e venne inventata la turbina generatrice di elettricità, si decise di spostare altrove la caduta d’acqua. Quella ch’era diventata “risorsa idrica” la incanalarono nelle condotte forzate e scese precipitosa davanti a Papigno, per far funzionare la Centrale idroelettrica di Galleto. Per un tempo non breve, l’acqua la nascosero nel Lago di Piediluco e la Cascata divenne muta. Galleto entrò in funzione nel 1929 e il regime – che andava in giro con gli stivali, similmente al gatto della favola – impresse sopra una lapide: “Con opera ancor oggi mirabile, la Roma dei Consoli regolò le acque del Velino in piena e l’Italia nuova, Duce Benito Mussolini, memore del passato, fidente nell’avvenire, le raccolse, domò, costrinse a diventar forza (meglio sarebbe stato farsa), luce, ricchezza, assecondando, col rombo gioioso, l’inno eterno del lavoro umano.” Molto più modestamente, i romani antichi avevano lasciato inciso sulla pietra, quando fu scavato il primo solco in cima alla rupe: “Manio Curio Dentato, per la terza volta Console, fece per la salvezza dell’Urbe”. E basta, senza alcuno scimmiottamento.