Quattro straordinari strumentisti a fiato italiani con un pianista ancora fresco come una rosa. Al centro di una straordinaria proposta il timbro del clarinetto di Alessandro Carbonare, una voce di fanciullo in assoluta purezza, aria e acqua, legno, ancia di canna di palude, un petalo vibrante che cerca cavità nelle tue orecchie. Nonostante la accertata autorità di Pietro de Maria, pianista beniamino degli Amici della Musica, domenica pomeriggio la centralità del complesso che occupava la sala dei Notari sembrava essere rivestita proprio dal clarinettista Carbonare, musicista di altezza stellare in contesto internazionale. Cosa rara di questi tempi.
Il concerto era godibilissimo e la piena occupazione della sala ne era la garante testimonianza. C’era bisogno di leggerezza dopo il concerto con le Goldberg con un pianista che ha diviso il pubblico tra consensi e critiche. Domenica c’era invece la totale unanimità, dato che anche la musica scorreva con piacevolezza.
Già mettere insieme quattro fiati di spessore è un’impresa di non poco conto, data la impossibilità di ricostituire qualcosa che agli Amici della Musica concerne l’epopea del Melosa Ensemble di Londra, protagonisti di letture indimenticabili di tutto quel che c’è da sapere sulla musica da camera.
Oggi, con tempi di produzione dal fiato cortissimo, le prove per studiare insieme sono un lusso, e forse anche per i nostri ospiti una mezz’ora in più non avrebbe guastato.
Ma fin da quando Carbonare, Di Rosa e Bossone, clarinetto, oboe e fagotto, si sono presentati in pedana il buonumore e la grazia preziosa si sono impadroniti degli ascoltatori: un Mozart K 439b/1 che sarà pure un richiamo massonico, ma che, quanto a leggerezza, non ha eguali. E’ forse a qualcosa del genere a cui si riferiva Goethe, il Sommo, in una delle sue esternazioni autobiografiche, quando parlava di un malumore saturnino fugato all’istante dalla convocazione di tre strumentisti a fiato che, nel suo giardino di suonarono per lui musica di Mozart. Piaceri riservati a un ministro del ducato, ignoti oggi anche a politici di rango.
Subito dopo è arrivata la cavalleria: de Maria, al pianoforte, con il cornista Pellarin, tutti insieme per il quintetto mozartiano K 452. Risale al 1784 ed è la sintesi cameristica di cosa il salisburghese stava realizzando con il pianoforte e l’orchestra, tipo i concerti K 450 e 451. La pagina cameristica non ne vuole essere una sintesi, ma conserva tutte le prerogative del dialogo tastiera-ance, con colorature vibratili e tinte ombrose, soprattutto nell’amalgama offerto dalla voce del corno. Fiati impeccabili e qualche accento in più per de Maria che si trova a misurarsi col riverbero di legni e ottone.
La situazione si ripresenta analoga nella seconda parte del concerto. Prima un trio di Beethoven, clarinetto, oboe e fagotto per la variazioni sul “La ci darem la mano” con cui Beethoven omaggia Mozart. La strumentazione non è quella originale, ma consente ai prodigiosi fiati italiani, in particolare a Bossone, di offrire una prestazione smagliante. Poi di nuovo il quintetto, come lo concepiva nel 1796 un Beethoven ancora giovane, e quindi gravato dal quell’umore piuttosto grezzo tramandato da tutte le fonti. L’equilibrio trovato da Mozart per il suo pezzo qui pende invece tutto a favore del pianoforte, con esposizioni brutali e sollecitazioni da centrocampista invadente. Ma quando si ha il piacere di godere di una esposizione come quella degli ospiti di domenica, il pomeriggio è speso bene, e anche dagli spalti, sempre temibili, delle gradinate dei liceali a caccia di crediti, viene una risposta convinta e trascinante.
Amici della musica sempre in alta classifica e conferma della classe di de Maria, di Carbonare e dei loro colleghi, tutti musicisti che da giovani hanno militato tra le poche proposte che il nostro paese offre alla formazione di giovani strumentisti: Fiesole, orchestra Mozart, la Cherubini. Tutte e poche situazioni in controtendenza con il reddito di cittadinanza, che ne mette a rischio la sopravvivenza.
Stefano Ragni