Di Adriano Marinensi – In altro scritto, dopo la sua morte, posi questo interrogativo: Se potessi chiedere a Micheli, come vuoi ch’io ti ricordi, in un articolo? Sono sicuro mi risponderebbe: Parla di un mio libro e non di me. E così voglio fare, in questo anniversario della scomparsa, avvenuta di gennaio, il 21 del 2011. Al funerale, gli resero omaggio le più alte Cariche dello Stato. Gli operai ternani esposero uno striscione con sopra: “Grazie Enrico”. Omaggio che gli venne rinnovato un anno dopo, durante il Convegno “L’ultimo liberal”, a lui dedicato e titolo di una raccolta di suoi articoli.
Mi è stato fraterno Amico e se dicessi di come fu punto di riferimento, saldo e autorevole, per gli umbri, per le Istituzioni, per le forze politiche regionali e nazionali, di come fu Manager (Direttore generale dell’IRI), Statista illuminato (Ministro dei LL.PP. e Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), narratore raffinato (ha pubblicato 11 romanzi. Mi diceva, “alzandomi presto la mattina”); se io parlassi qui di questi suoi “profili”, di certo, l’amicizia mi indurrebbe nella retorica.
Dunque, “parla di un mio libro e non di me”. Allora, mi sia consentito riproporre la “recensione” (che scrissi il 14 febbraio 2006) de “Il Palazzo del Papa” (Sellerio Editore – pag. 128). Un racconto condotto, da Micheli, sul filo di una prosa semplice, un linguaggio elegante ed essenziale. Lo stesso stile che gli valse la nomination tra i 15 finalisti del Premio Strega con “Le scale del paradiso”. Il Palazzo del Papa è ambientato in “una stazione di posta con relativa locanda” che par sia quel fabbricato, esistente all’inizio della Somma, versante Terni. Gli accadimenti sono calati nell’epoca di Papa Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti), tormentata dai fermenti post napoleonici, un po’ “eretici” nel confronto con il conservatorismo della Curia romana del tempo.
Ed ecco i personaggi. I primi a comparire sono l’oste Giulio, definito “un uomo rozzo, come tanti allora, che trascorreva sui campi gran parte della giornata”; la moglie Maria, che “viveva per lavorare e non aveva imparato altro dalla vita”; la loro figlia, quasi ventenne, Felicita “fanciulla in fiore con degli occhi sognanti, che perforavano la trascuratezza del presente e miravano lontano”. La vicenda li vede, all’inizio, indaffarati nel preparare al meglio l’alloggio per offrire degna accoglienza all’eminentissimo personaggio di Chiesa, Cardinale Alberigi di passaggio dalle Marche verso Roma. Micheli lo presenta come “persona di spirito, ma soprattutto di materia”. E aggiunge: “Cercava, in ogni modo, di rendere gradevole la valle di lacrime nella quale gli era dato di vivere”. Aveva sempre appresso il segretario, don Pietro, “un bel giovane, aggraziato nei modi; di lui il Prelato, come si sul dire, s’era invaghito”. Lo si riconosce pretino d’epoca, originario dei luoghi umbri li intorno, fidato mentore e devoto alla fede. Si scoprirà solo più avanti poco ligio ai panni talari, nientemeno per via di una tresca piccante, che gli fece dimenticare la devozione.
Il Porporato, il Sacerdote, insieme ad Oreste il cocchiere ed alcune altre figure di contorno arrivano al Palazzo del Papa ch’è una serataccia d’inverno. Ed è subito l’ora, per il Cardinale Alberigi, di appressarsi ad una cena “strabordante”. La cucina casereccia rappresenta per lui il massimo del gusto. E l’assetto fisico tradisce la voluttà culinaria. Segue d’appresso una dormita, sonora di stanchezza e cupidigia. Al risveglio, “il territorio – scrive Micheli – appare pesantemente imbiancato, i contorni ovattati, di un silenzio tale e quale a quello, rispettoso del sonno altrui, dei locandieri, desti invece già di buon’ora.” Dunque, una condizione serena, però in discordanza con ciò che sta per accadere.
Infatti, il Cardinale lo si scopre morto nel suo giaciglio. Sottolinea Micheli: “le membra scomposte, il volto stravolto da un ghigno terribile.” Don Pietro, il fido segretario, non si trova. Anzi par sia fuggito. La giovinetta Felicita – aveva detto il padre, “ancora non s’è data pace perché don Pietro s’è fatto prete” – ha tentato il suicidio. Siamo allo sconforto generale ed all’intrigo poliziesco. Arriva tosto il Commissario Pacifici della Gendarmeria di Spoleto, tipico poliziotto di periferia “aduso, per lo più, a fare i conti con reati di abigeato o modesti delitti d’interesse”. Inadeguato dunque ad affrontare le asperità di un cadavere morto non si sa come. Malgrado il colore giallognolo della vicenda – il defunto sopra il letto, don Pietro svanito, la fiorente Felicita con i polsi incisi – Pacifici tenta una rapida accomodante conclusione. “Quest’uomo – gli fa dire Micheli – è morto per motivi casuali e naturali.” La motivazione: “Siccome, a tavola, si è strafogato, nel sonno ha avuto un rigurgito, gli è preso un colpo ed è rimasto li.” Un argomentare che va benissimo a Mons. Aldrovandi, inviato di corsa, sul posto, dalla Curia romana, “per indagare e soprattutto onde tutelare il buon nome della Chiesa.” E quindi, con la gran voglia di seppellire, rapidamente il caso insieme ad defunto. In pieno ossequio – è il parere dell’autore – alla curiale regola, secondo la quale i panni sporchi (nella fattispecie comunque probabili) s’hanno da lavare in casa. Men che mai, sciorinarli alla finestra.
Ad occhio e croce, l’Alberigi mostra d’esser vittima di fattori esterni. Però, l’ipotesi investigativa prevalente rimane che, avendo il Prelato crapulone fatto la grande abbuffata, l’osso del povero coniglio ingurgitato, gli è tornato in gola di traverso e santi benedetti. Sarà andata così? C’è un’altra tesi. Questa: Durante la notte, il Cardinale ha scoperto, a sua plateale sorpresa, la ragazza Felicita avvinta a don Pietro da amorosi sensi, nell’estasi della carne. Per evitare lo scandalo, il pretino ha eliminato il testimone e se l’è data a gambe. Mentre, la disperazione ha indotto la fanciulla a tentare il suicidio. Dunque, morte naturale o omicidio? Come in ogni intreccio narrativo, non è corretto rivelare, nella recensione, i fatti conclusivi e ancor più l’artefice dell’eventuale delitto. Meglio invitare il lettore a farsi prendere per mano da Micheli e proseguire il percorso narrativo, leggendo la parte finale del romanzo. Ne vale la pena.