di Adriano Marinensi – Ho letto che, nel luglio prossimo, a Magione, una Compagnia teatrale metterà in scena la rappresentazione rievocativa di uno dei fatti storici di rilievo accaduti in quella parte dell’Umbria, all’inizio del XVI secolo. Una guida turistica definisce Magione “paese di bell’aspetto, a breve distanza dal Lago Trasimeno”. Il nome deriva dalla Magione, il Castello dei Cavalieri di Malta, “a pianta quadrata, con torri angolari e cortile a tre loggiati sovrapposti”, che arricchisce l’abitato.
Dunque una maestà dal punto di vista architettonico; però c’è un evento antico ad accrescerne la notorietà: proprio l’oggetto della rappresentazione teatrale. Per spiegarlo occorre contestualizzare il racconto dentro la sua epoca. Epoca di signorie litigiose, di soldati di ventura, di intrighi e sommosse, di poteri in perenne conflitto. Dietro le quinte della scena è collocata una figura di Pontefice, Alessandro VI Borgia, che fu Padre Santo solamente per i figli suoi. Che non erano pochi. Quattro ne aveva avuti dalla amante storica, Vannozza Cattanei con la quale viveva in Vaticano more uxorio, e una dall’amante giovane, Giulia Farnese. Quelli più noti e di oscura nomea furono Cesare e Lucrezia.
Di questo trio delle meraviglie (Alessandro, Cesare e Lucrezia), al suo tempo protagonista improprio di mirabolanti imprese, Alessandro Dumas ha scritto: Lucrezia e Cesare erano i figli prediletti del Papa e tutti e tre formavano la trinità diabolica che rimase, per 11 anni, sul trono pontificio come una parodia sacrilega della Trinità celeste. E Victor Hugo, le avventure di Lucrezia, le ha trasformate in dramma letterario. Niccolò Machiavelli invece s’è interessato a Cesare e lo ha preso a modello per tracciare l’identikit del suo “Il Principe”. E ha pure scritto la “Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini”,
Nel mentre Cristoforo Colombo scopriva l’America, nel 1492, il Conclave eleggeva il Cardinale spagnolo Rodrigo Borgia con il nome di Alessandro VI. Lui si insediò in Vaticano portandosi appresso i parenti tutti, per i quali si mise subito subito a brigare onde porre ognuno nella dovuta esimia collocazione. I favoriti di Alessandro erano – come detto – Lucrezia e Cesare. A Lucrezia procacciò una infinità di matrimoni illustri e di titoli nobiliari, compreso quello di Governatrice del Ducato di Spoleto. Con una “breve” annunciò agli umbri di aver nominato “l’amata Figlia di Cristo (nientemeno!) Lucrezia” ed espresse la speranza che, “come di dovere, voi ubbidirete i comandamenti di lei”. Per il maschio di casa, dal nome imperioso (Cesare appunto, però senza l’appellativo di Augusto) stravedeva al punto da sostenerlo in tutte le sue megalomanie, talvolta nefande. Il Borgia junior s’era messo in testa d’essere Principe ereditario del Re della cristianità e quindi in diritto di avere, quanto meno, un regno tutto suo, in attesa di ereditare quello del (Santo) Padre. Da giovane, studia all’Università di Perugia e, più tardi, caccia dalla città i Baglioni e se ne impadronisce. C’è di lui un notevole dipinto, attribuito al Pinturicchio.
Cesare Borgia, detto il Valentino, inizia la carriera da precoce Cardinale, ma presto capisce che la porpora non è di suo gradimento. Depone la berretta rossa e – antesignano di un Cavaliere moderno che, per certi versi, gli assomiglia – scende in politica. Alla sua epoca in politica, ad alti livelli, si aveva successo con almeno un piccolo esercito al seguito e mezzi economici consistenti. Le risorse gliele fornisce il Papa – papà (una volta, dalla nomina di 12 nuovi Cardinali a pagamento, in una botta sola, ricavò un mucchio di ducati). Assoldata un’ampia risma di scagnozzi di ventura, Cesare si mette in battaglia con alcuni signorotti dell’Italia centrale. Si impadronisce, a mano armata e in rapida successione, delle città di Imola, Forli, Rimini, Pesaro, Faenza. Più tardi pure di Urbino, Camerino, Perugia e Città di Castello. Raggiunta tale ampiezza e importanza, il “dominio” ha bisogno di una capitale di prestigio. Bologna, per esempio. Si può fare, ritiene Cesare. Non la pensano allo stesso modo alcuni dei “capi bastone” che pure lo hanno aiutato nell’impresa mafiosa. Il livello di potenza del capo spaventa i bellicosi gregari e loro cominciano ad organizzarsi.
A questo punto, siamo nel 1502, la scena si sposta a Magione, nella dimora del Cardinale Giovan Battista Orsini. Vi si riuniscono Paolo e Francesco Orsini, Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e il perugino Giampaolo Baglioni. La decisione adottata è forte: affrontare e sconfiggere il Valentino, al fine – sostengono – di evitare “d’essere, uno ad uno, devorati dal dragone”. Lui però ottiene una tregua (ovviamente in nome del padre) e invita i congiurati ad un incontro pacificatore, a Senigallia. In 4 accettano l’invito: Vitellozzo, Oliverotto e i fratelli Orsini. Manco fanno in tempo a stringergli la mano che Cesare il terribile, li colpisce con l’arma che meglio sa usare: l’inganno e il tradimento. Due ne fa strangolare subito e gli altri qualche giorno dopo. C’è una lapide, a Senigallia, che attesta: Nella casa di Bernardino Quartari, qui presso, ebbe luogo, per ordine di Cesare Borgia, l’eccidio di Oliverotto da Fermo e di Vitellozzo Vitelli da Città di Castello, il 31 dicembre 1502. Dunque, la parte rilevante degli “insorti” di Magione era stata brutalmente eliminata, senza alcuno scrupolo, come nessuno scrupolo il Valentino ha mai mostrato in molte altre trame, macchinazioni, intrighi, uccisioni. Compresa la soppressione di uno dei mariti di sua sorella Lucrezia. Il metodo canagliesco affascina il Machiavelli, il quale, in una lettera inviata a Firenze, esprime positive valutazioni rivolte alla genialità dell’organizzatore e propone il metodo usato da questo rampollo di tanto padre, come “imitabile a tutti coloro che, per fortuna o con le armi, sono scesi all’imperio”. Insomma, non una vigliaccata, quanto invece una interessante strategia politica. Il concetto verrà riassunto nel preteso assioma “il fine giustifica i mezzi”.
Morto un Papa – Alessandro VI, nel 1503 – come si suol dire, se ne fa un altro. Prende il nome di Pio III che, vecchio e malandato, in capo ad un mese, si toglie di mezzo, lasciando il soglio a Giulio II (Giuliano della Rovere). A babbo morto, per il Valentino, cominciano i guai. Il nuovo Pontefice gli si mostra nemico e lui fugge prima a Napoli, poi in Spagna. E in Spagna, nel marzo del 1507, finisce l’epopea nient’affatto gloriosa di Cesare Borgia. Al pari del suo omonimo romano antico (Giulio) Cesare, viene ucciso in una imboscata con uguale numero di coltellate: ventitre. I cospiratori di Magione che avevano progettato di eliminare il Valentino e da lui erano stati assassinati nell’agguato di Senigallia, ora conseguivano la loro nemesi per mano di un gruppo di complottisti. All’insegna del detto secondo il quale “chi di spada ferisce, di spada perisce”. Con buona pace del Machiavelli e della sua argomentazioni sui sistemi violenti di conquista del potere.