A Cascia, in piazza San Francesco, tutti col green pass in mano, ordinati e rassegnati.
Ma l’altra sera la posta in gioco era altissima: Omaggio all’Umbria, per i concerti del Cratere, offriva due tenori e un violino. Una combinazione che rappresenta il massimo che il Made in Italy continua a proporre al mondo della musica. Che poi, qui a Cascia, come ricorda il sindaco Mario De Carolis, vuol dire la memoria dello storico concerto di Uto Ughi alla sala della Pace. Il rapporto che lega il festival di Laura Musella con la città di santa Rita elenca anche una straordinaria presenza, quella di Giancarlo Giannini, coinvolto da Omaggio all’Umbria in un memorabile dialogo col pubblico.
Con tre assi nella manica Laura Musella, la fondatrice del festival che ha operato in tempo di crisi con incredibile disponibilità verso gli artisti e i musicisti notoriamente in grande difficoltà, ha sfoderato il violino di Stefano Mhanna, ormai competitivo con i grandi interpreti del nuovo millennio, e i due tenori, Davide Sotgiu ed Edoardo Milletti, ambedue perugini, che arricchiscono, con le loro carriere avviate, il livello della tradizionale scuola di canto perugina che mantiene l’eredità dei Petri, dei Sereni, dei Tei, della Stella, ora novantaduenne, e della Cerquetti.
L’impronta volutamente popolare dei concerti di Omaggio all’Umbria, eventi che debbono raggiungere la comprensione di tutti, ha seguito una impaginazione piuttosto popolare, mettendo insieme momenti del virtuosismo violinistico di cui Mhanna è più che padrone con le risorse del repertorio operistico e il recupero della tradizione della canzone napoletana.
Si è determinato così, nella lunga serata, un percorso che dall’iniziale Pugnani-Kreisler con cui Mhanna è stato accompagnato dalla sua formazione d’archi, i Novi Toni Comites, ha confluito nella silloge di grandi arie, Don Pasquale e Rigoletto per Milletti, Tosca e Furtiva lacrima per Sotgiu.
Un prevedibile numero di Mhanna e Novi Toni Comites è stata L’estate di Vivaldi, snocciolata con quella spericolata arcata che il venticinquenne romano adotta quando deve far brillare la musica che interpreta. Sei canzoni napoletana sono state il ricco bottino intercettato dal pubblico casciano. E visto che nella tradizione partenopea si parla sempre di amanti traditi e delusi che si rivolgono alla luna e a “’a muntagna”, ecco la luna c’era proprio, a levante, alta in cielo, gialla e solenne. Una compagna silente e fedele che ci ha illuminato per le due ore del concerto che, a onor del vero, si contendeva lo spazio sonoro con lo schermo televisivo del bar che trasmetteva la partita e i ragazzini che impazzavano a più non posso sui calciobalilla. Più popolare di così è difficile.
I napoletani, dunque, con O’ surdato ‘nnamorato di Califano, musicato da Ennio Cannio: la cantava anche Anna Magnani nella Sciantosa e dal 2013 è l’inno della squadra di calcio del Napoli. Racconta di un povero soldatino che va a morire sul Carso nel macello della Grande Guerra e scrive la sua ultima lettera alla fidanzata lontana. Dcintincelloe vuje nel 1930 descrive con la musica di Rodolfo Falvo una vera azione teatrale, con il coinvolgimento di due personaggi che ci comunicano in maniera singolare il reciproco amore. Dopo la splendida positività di Torna a Surriento ecco la canzone napoletana “di ritorno” dagli Usa dove l’ha scritta l’emigrato calabrese Alessandro Sisca. A Napoli la musicò Salvatore Cardillo definendola “una porcheriola”. Era il 1911.
Non ti scordar di me è opera del grande Ernesto de Curtis e della sua infinita scia di successi: era incastonata nel film omonimo prodotto ad Amburgo dalla cinematografia italo-tedesca del 1935 e fu portata al successo da Baniamino Gigli.
Tu ca nun chiagne dal 1915 è stata cantata da Caruso, sino a Iva Zanicchi, Massimo Ranieri e Mario Merola. Nel 1975 la versione del Giardino dei Semplici ha venduto un milione di copie. Chiusura con O sole mio duettato dai tenori che nel corso della esposizione si sono condivisi gli scroscianti applausi del pubblico. Confortati da una arietta appena pizzicosa nessuno di noi si muoveva dalla sedia. L’incanto lunare delle canzoni napoletane è stato scosso quando Mhanna, abbondonato il podio di direttore da cui aveva concertato i suoi archi, ha ripreso lo strumento per spazzolarci con il Moto perpetuo di Paganini, una reale incarnazione della sua presumibile “demonicità”. Lo aveva detto Goethe a proposito di Paganini e lo confermiamo noi, quando leggiamo negli occhi di Stefano lo scorrere della musica che si dipana nel suo sguardo come una caleidoscopica e turbinosa Odissea di suoni, di ritmi e di colori. Un atlante di incantesimi che avrebbe affascinato anche Borges.
Si vorrebbe salutare Mhanna con gli applausi più convinti, ma lui non ce ne dà tempo, perché attacca due Capricci di Paganini e li suona come se sgranocchiasse un grissino. Lo scorrere della luna che nel frattempo è tramontata ci dice del tempo passato. Non ancora esausto Mhanna e Comites intonano la Danza degli spiriti beati di Gluck. Ora è tempo della pace e del ritorno a casa.