di Adriano Marinensi – La notizia d’attacco è questa: è morto, nei giorni scorsi, l’ultimo superstite dei cosiddetti “compagni di merende”. Si chiamava Fernando Pucci e fu uno dei testimoni chiave nei processi per i 16 morti ammazzati brutalmente, in Toscana, tra il 1968 e il 1985. Quello del “mostro di Firenze” può considerarsi il primo caso, in Italia, di omicidi seriali ed ebbe straordinaria attenzione mediatica, oltre a forte impatto sull’opinione pubblica. Con gli organi inquirenti che, per lungo tempo, non riuscirono a venire a capo del mistero. Vedremo poi chi furono i “compagni di merende”.
Diciamo subito che ci fu un filo conduttore in questa intricata vicenda: innanzi tutto l’arma dei delitti, sempre la stessa, una Beretta Calibro 22; le coppie prese di mira quasi tutte dentro un’auto in luoghi appartati, di notte; il presunto comune movente di natura esoterica e feticista, avvalorato dalle mutilazioni inferte ai cadaveri delle donne nelle parti intime. Sin qui, la premessa. La lunga sequenza di azioni scellerate ha inizio il 21 agosto 1968. Accanto al cimitero di Signa è ferma una Giulietta bianca. Dentro ci sono due amanti: lui Antonio Lo Bianco (29 anni), lei Barbara Locci (32), detta “ape regina” per i suoi numerosi amori. Nel sedile posteriore dorme un bimbo di 6 anni, Natalino, figlio di Barbara. E’ mezzanotte, quando i due vengono uccisi con otto colpi di pistola. Un dramma della gelosia? E’ il primo delitto e l’accusa immediata è per il marito.
Passano 6 anni. Il 14 settembre 1974, vengono uccisi, a Borgo S. Lorenzo, Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, entrambi non ancora ventenni. Di nuovo 8 colpi di Beretta 22 e una ignominia di violenze compiute sul cadavere della ragazza. Qualche anno di tregua e siamo al 6 giugno 1981. Ad essere assassinati, a Scandicci, sono Giovanni Foggi (30 anni) e Carmela De Nuccio (21), sempre in automobile e in luogo appartato. L’arma è identica e 8 i colpi sparati. Arrestano un “guardone”, con l’accusa di essere il mostro: lui però è estraneo ai fatti. Di nuovo, nel 1981, il 22 ottobre. A Calenzano, vittime di quello che ormai è diventato il serial killer, sono Stefano Baldi (26 anni) e Susanna Cambi (24). Pressoché identica la scena del crimine: in auto, di notte, fuori mano e l’arma che spara nove colpi. Con un coltello l’assassino infierisce sul corpo della ragazza.
La sequela dei fatti di sangue riprende nel giugno 1982. A Baccaiano, sono ritrovati i corpi di Antonella Migliorini (19 anni) e Paolo Mainardi (22). Stesso copione (a bordo di un’auto), stessa pistola (Berretta 22). A questo punto, siamo a dieci morti e nessun assassino. Però, un mostro ci vuole e viene arrestato. Si chiama Francesco Vinci, pecoraio sardo pregiudicato, già chiamato in causa perché uno degli amanti di Barbara Locci, l’”ape regina” del 1968. Si fa un bel po’ di galera, prima di essere scagionato. Appena un anno dopo (9 settembre 1983), a Giogoli, altri due sparati dalla Beretta cal.22. Si tratta questa volta di ragazzi stranieri, entrambi di 24 anni. Per loro 7 proiettili mentre si trovano all’interno di un furgone attrezzato a camper. Quando l’assassino si accorge che sono due uomini, se ne va senza gli usuali ulteriori vilipendi.
Vengono “raccattati” altri due mostri da sbattere in prima pagina, Pietro Mucciarini e Giovanni Mele. Si fanno otto mesi di custodia cautelare, poi viene rimesso in libertà, perché gli indizi non reggono. Altro giro altro duplice omicidio. Il 29 luglio 1984, a Vicchio, è la volta di due giovanissimi, Claudio Stefanucci (21 anni) e Pia Gilda Rontini (18), la quale subisce le consuete mutilazioni sessuali. Ad arrivare per ultimo (8 settembre 1985) è il cosiddetto “delitto degli Scopeti”, località di S. Casciano in Val di Pesa. Ci lasciano la vita due francesi, 25 anni lui, 36 lei, madre di due bambini. L’unica variante, in tal caso, la tenda dove sono accampati, anziché l’auto. Questa volta l’assassino diventa tracotante e invia un brandello del seno della giovane al P M incaricato delle indagini.
Siamo giunti al 1991 ed è il momento di far entrare in scena, su questo teatro del Grand – Guignol, ambientato sulle colline di Firenze, i “compagni di merende”. Lo starring è sicuramente Pietro Pacciani (il “Vampa”), un rozzo contadino che ha, tra l’altro, scontato anni di prigione per violenza alle proprie figlie e per aver ucciso, in gioventù, la fidanzata per gelosia. In paese lo dicono collerico, dispotico e brutale. Quindi il profilo giusto per sostenere il ruolo del sadico serial killer. Lo arrestano il 17 gennaio 1993. Gli altri “compagni” si chiamano Mario Vanni (“Torsolo”), Giancarlo Lotti (”Katanga”) e Fernando Pucci, colui che si dichiarerà, in Tribunale, testimone oculare di due degli omicidi commessi da Pacciani e Vanni, nel 1984 e 1985. L’appellativo “compagni di merende” lo si ricava proprio dalla deposizione, in Tribunale, di Vanni. Alla richiesta di indicare il proprio mestiere, dà questa risposta in vernacolo: “So’ stato a fa delle merende con ip Pacciani”. Ad accusare Pacciani e Vanni di alcuni delitti del mostro è Giancarlo Lotti. Dichiara che lo hanno costretto a partecipare, sotto la minaccia di rivelare, in paese, la sua omosessualità. Non parve una testimonianza penalmente probante. E’ morto di tumore a 61 anni.
La parte dei processi giudiziari risultò alquanto complicata. In primo grado Pacciani fu condannato all’ergastolo, colpevole di 7 omicidi; poi assolto in Appello. La Cassazione annullò la sentenza, ordinando un altro processo che non ebbe luogo: l’imputato lo trovarono morto (forse ucciso) qualche giorno prima (22 febbraio 1998). Condanna pesante pure per Mario Vanni, con sospensione della pena, di li a pochi anni, per gravi motivi di salute. E’ deceduto il 13 aprile 2009. Gli stessi motivi di salute portarono alla liberazione di Gianfranco Lotti (30 anni di reclusione). E’ morto il 30 maggio 2002, quindici giorni dopo aver riassaporato la libertà. Fernando Pucci fu l’unico a cavarsela, rischiando però, in aula, l’incriminazione per le sue reticenze e contraddizioni.
Questa mostruosa e assurda vicenda di morte ha avuto un appendice anomala e un po’ fantasiosa. Il 13 ottobre 1985, nel Lago Trasimeno, fu ripescato il corpo del medico perugino Francesco Narducci. Si disse annegamento per disgrazia oppure suicidio. E, forse con troppa fretta, si procedette alla “degna sepoltura”. Dunque, nulla di particolarmente anomalo. Sino alla intercettazione di una telefonata anonima con la quale, alcuni pregiudicati minacciavano una donna di farle fare la fine di Pacciani e Narducci. Ne nacque un macchinoso procedimento, avviato dalla Procura di Perugia, a base di sentenze preliminari, ricorsi e controricorsi, concluso, a metà strada, con l’archiviazione da parte del GIP, che però ebbe ad avanzare l’ipotesi che Francesco Narducci fosse stato ucciso (non annegato) e il cadavere sostituito. Alla fine, si arrivò in Cassazione, ma la complessa matassa rimase avvolta, senza però alcuna conseguenza penale per le persone chiamate in causa a vario titolo. Forse s’era trattato di una sorta di fiera degli equivoci.