Di Adriano Marinensi – Oggi, se fosse ancora in vita, compirebbe 65 anni. Sarebbe un anziano giornale studentesco, nato a Terni, il 15 dicembre 1954 e registrato all’anagrafe della stampa con il nome L’ Archibugio. Otto pagine (formato 45 x 35), scritte esclusivamente da alunni di Istituti superiori. Sulla prima pagina, in basso, un piccolo riquadro avverte: “Nell’interno, cronaca di Rieti,Terni, Orvieto”. Tre redazioni affollate da giornalisti in erba per tener fede alla linea del periodico che si definiva “Giornale di idee, fatti e polemiche”. Polemiche garbate, ma ugualmente pungenti come è nello stile naturale dei giovani. Direttore responsabile il dinamico (sin d’allora) Sandro Boccini che, negli anni della maturità diventerà Consigliere regionale dell’Umbria, Vice Presidente del Consiglio e “inventore” dei Centri studi “Vanoni” di Terni e “Mattei” di Perugia, insieme a Filippo Micheli.
Ci volle anche un po’ di coraggio, per allestire quell’Archibugio lì. L’ambiente scolastico era ancorato alla tradizione del “professore in cattedra” e quindi non offriva spazi alla contestazione clamorosa di fine anni ’60. Coraggio ci voleva anche per stamparlo in tipografia, tutto “corpo sei e otto” – tranne i titoli – e un aspetto somigliante a quelli venduti in edicola. Un lavoro lungo e certosino, con mezzi tecnici antesignani, quando manco la linotype esisteva. Composto a mano, lettera per lettera, una parola alla volta, una riga alla volta, un articolo alla volta, per arrivare ad impostare le pagine stampate una alla volta. Conservo quasi gelosamente L’Archibugio, Anno primo, Numero uno. Le ho contate le firme che vi compaiono: sono venticinque.
In tipografia, il centro dell’universo era il proto, l’uomo con il grembiule nero, il mago della composizione. Nero il grembiule come le mani sue, il bancone da lavoro, gli attrezzi del mestiere. Le minuscole lettere, di ferro o di ottone, le teneva dentro le caselle dei cassettoni, divise alfabeticamente ed a seconda del formato. Solo lui sapeva leggere nelle caselle. Similmente alla dattilografa sulla tastiera, armeggiava quasi ad occhi chiusi. Sapeva dov’era la a e dove la zeta, per collaudata esperienza. Il maestro, lo chiamavamo così, sbagliava raramente. Appena composto, legava il “pezzo” con diversi giri di spago, nero ovviamente (l’inchiostro era la materia prima) e un po’ sdrucito per l’uso. Quella l’operazione più delicata e rischiosa: se non fatta a regola d’arte, il composto si scomponeva e occorreva rimettete tutte le lettere al loro posto e ricominciare da capo. Le immancabili contumelie sono assolutamente irriferibili. Quei metodi, se comparati ai moderni strumenti di stampa, appariranno di certo antidiluviani. Però, così erano e con essi toccava fare i conti: allestire un periodico di tante pagine, come L’Archibugio, somigliava ad un’impresa da sport estremo. Senza contare il prima e il dopo. Il prima si faceva in redazione con le riunioni numerose per impostare il menabò, per definire l’ impaginazione, per correggere le bozze; riunioni spesso trasformate in occasioni di confronto. Lo stare insieme che serviva a dare l’anima al dialogo per cementare l’amicizia. C’erano entusiasmo ed anche “semi di cultura” in quella iniziativa. Nessuna concordanza con il moderno rapporto tra i giovani, sovente relegato nell’anonimato freddo dei messaggini trasmessi oziosamente dall’onnipresente cellulare. E i luoghi di socializzazione si chiamano movida. Che squallore!
Quindi, con il pacco dei giornali, in treno verso Rieti, Orvieto e successivamente pure Foligno, per la consegna ai colleghi responsabili di zona che ne curavano la distribuzione nelle scuole. Dove L’Archibugio era atteso e letto, soprattutto per il suo stile spontaneo, giovanile, goliardico. La linea era tracciata nell’editoriale in prima pagina sul Numero uno: “Non ci sposteremo dai binari della serietà, dell’indagine oculata ed avveduta, dell’inchiesta sui problemi della scuola ed altri del nostro tempo. Cercheremo di mettere in luce le esigenze della parte studentesca: questo sarà il nostro compito”. E ancora: “L’Archibugio è il giornale degli studenti, scritto dagli studenti, il megafono per meglio far sentire la voce e le esigenze degli studenti”. Fu quella stampa studentesca l’antesignana delle tante iniziative successivamente nate in Umbria nel campo dell’informazione dal basso, scritta, parlata e, più tardi, televisiva. Una viva palestra di impegno socio – politico, che, dagli anni ’70 in poi, divenne strumento di crescita culturale e democratica.
Ora ecco un altro argomento però tratto dalla cronaca attuale. Su un quotidiano di carta, in pagina di Perugia, ho colto una notizia sotto questo titolo: “Buche e strisce pedonali invisibili, arrivano toppe e vernice fresca”. Nel leggerla – confesso – mi è venuto un moto di invidia verso i cugini più fortunati. Poi, a distanza di pochi giorni, eccone un’altra, questa volta in cronaca di Terni: “Via Turati e Di Vittorio, tornano le zebre”. Evviva, dopo un paio di generazioni, tornano gli attraversamenti pedonali; però le buche rimangono. Dunque, ancora una volta, Perugia batte Terni per due a uno: buche e zebre contro zebre e basta.
In verità – ho pensato – nel confronto tra i due capoluoghi dell’Umbria , riferito agli ultimi decenni – si tratta dell’ennesimo “rospo” che a noi ternani tocca ingoiare. S’era sperato in un autorevole cambio di passo da parte dei nuovi amministratori locali (appunto, quelli del cambiamento); invece, a quasi un anno e mezzo dall’avvento, possiamo dire d’essere caduti dalla padella nella brace. Ma vediamo i “rospi”. Perugia continua a fregiarsi di due Atenei di elevata caratura culturale e noi a trastullarci con un Polo chiamato abusivamente universitario; Perugia aveva un nosocomio strutturalmente inadeguato e ne ha costruito un altro e noi continuiamo a rattoppare quello progettato al “tempo di Checco e Nena” (come si dice a Terni); Perugia, al posto del vecchio stadio ne ha costruito un altro e noi sempre a giocare al “Liberati”, inaugurato nel passato remoto; Perugia tiene, in bella mostra, la Fontana di Fra Bevignate e noi, ormai da anni, invece ben nascosta quella dello Zodiaco, incartata e muta.
Ancora: Perugia ha bucato la montagna sulla quale sorge, per deviare il traffico passante nel centro storico e noi continuiamo (dagli anni ’60 del ‘900) a ciurlare nel manico della sedicente e incompiuta superstrada Terni – Rieti; Perugia ha risalito la sua china con tante scale mobili e noi neanche i 45 gradini di accesso alla Passeggiata siamo riusciti a “mobilitare”, per il beneficio degli anziani e delle mamme con il passeggino; a Perugia non mancano di certo Teatri (ed “ampie superfici” per Congressi) e noi abbiamo il “Verdi” inagibile, in sempiterna attesa di restauro. Insomma, Perugia – in epoca moderna – ne ha fatte di tutti i colori e noi niente. Sarà colpa del solito destino cinico e baro oppure della “bassa statura” di chi continua a governare, in modo maldestro, questa città?