Erano residenze private per dare ospitalità ai visitatori illustri
di AMAR
Venezia, Genova, Pisa e Amalfi sono le più famose città marinare italiane, padrone dei mari, dal medioevo in avanti. La nascita di Genova, in quanto soggetto di potere, è datata intorno al’XI secolo. Francesco Petrarca le dette l’augusto appellativo di Superba. Fu la regina dei commerci e capitale della finanza per le ingenti ricchezze di alcune famiglie aristocratiche. Le sue imprese conobbi nei tempi lontani della scuola. Per esempio, la Battaglia della Meloria, l’epico scontro tra la flotta ligure e quella pisana per il dominio del Mar Tirreno. E le lotte con Venezia per il controllo delle vie d’acqua intorno allo stivale.
Ho invece conosciuto da poco un aspetto un po’ celato del suo patrimonio ambientale e culturale. A parte quel caratteristico aspetto territoriale – urbanistico che copre l’intero arco del golfo per una trentina di chilometri, lungo una fascia litoranea da Voltri e Nervi, la città possiede anche un patrimonio edilizio di dimore gentilizie aventi gran pregio artistico. A Genova, li chiamano i Rolli (d’oro), cioè elenchi, datati intorno al XV – XVI secolo, che ne testimoniano la magnificenza. Per il rilevante interesse culturale, 42 palazzi, l’UNESCO li ha riconosciuti patrimonio dell’umanità.
Narrano quei solenni “quasi castelli” il tempo inclito di una comunità che sul mare costruì un profilo di straordinaria potenza e prosperità. Proprio l’UNESCO ha apposto una targa sulla quale si legge: “Le maggiori dimore, varie per forma e distribuzione, erano sorteggiate in liste ufficiali (Rolli) per ospitare le visite di Stato. I palazzi, articolati in sequenze atrio – cortile – scalone – giardino, ricchi di decorazioni interne, esprimono una singolare identità sociale ed economica che inaugura l’architettura urbana di età moderna in Europa”. Visitare i Rolli è un viaggio nell’eleganza e nella bellezza, affacciati sulla storia.
Appartenevano alle ricche e nobili famiglie dell’epoca medievale che gareggiavano tra loro nel mettere in mostra il proprio prestigio attraverso l’imponenza del lusso. La grande bellezza esterna che eguagliava quella interna, realizzata dall’opera di insigni artisti come Pieter Paul Rubens, Antoon Van Dyck, Guido Reni, il Guercino e molti altri genovesi, rappresentanti del barocco e rococò. I più illustri palazzi rappresentano il primo tentativo regolatore della pianificazione urbana di Genova. Furono edificati insieme ad un elegante gruppo di strade nel centro civico che sta tra il mare di fronte e i rilievi del’Appennino alle spalle.
Malgrado fossero di proprietà privata, erano destinati anche ad uso pubblico. A seconda del valore monumentale, la Repubblica li destinava all’ospitalità di personaggi importanti in visita alla città. Ed ovviamente i proprietari competevano tra loro nella spettacolarità del ricevimento. L’ospitaggio era esercitato in una sorta di “laboratorio artistico di rappresentanza” che riuscì a creare una molteplicità di capolavori pittorici rimasti oggi a ricordare il secolo dei genovesi.
A volerne citare alcune di queste dimore che esibiscono l’eccellenza dell’edilizia d’arte, occorre porre in testa il Palazzo rosso. Di seguito il Palazzo bianco, poi Doria Pallavicino, Balbi, Spinola, Reale, Lomellini, del Podestà. E tante le famiglie di gran censo come i Brignole che lasciarono un paio di ospedali, il porto ristrutturato a proprie spese, una villa con parco, oltre a Palazzo rosso e bianco. Era la Genova dell’opulenza che impose il proprio modello a mezza Europa. Gli storiografi sostengono che, a Genova, sia stato registrato il primo contratto di assicurazione, aperta la prima banca pubblica e che il Genoa F.C. sia la più antica squadra di calcio italiana. Genova è pure la patria dell’Inno Fratelli d’Italia scritto e musicato da Goffredo Mameli e Michele Novaro.
Nei primi anni del ‘600, non si era ancora interrotto il fiume di oro e di argento che dalle miniere sudamericane arrivava nelle casse dei banchieri liguri, creando enormi patrimoni familiari. Nel XVI secolo era nata la Repubblica dei Dogi e del lupo di mare Andrea Doria. La partenza di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America è datata agosto1492, l’anno che pose un segno rilevante nella storia del nostro continente. Cristoforo è molto conosciuto, Andrea un po’ meno.
Fu comandante del porto, della flotta genovese e, più tardi, delle navi papaline. Finché ebbe a disposizione una “marina” di sua proprietà, da mettere al servizio di terzi. Alleato di Francesco I di Francia, riuscì a liberare Genova dagli imperiali di Carlo V e la città passò sotto il suo controllo. Hanno avuto il suo nome alcune navi italiane tra le quali il transatlantico omonimo che affondò il 26 luglio 1956, a seguito della collisione con la svedese Stockholm a poca distanza da New York. Parlare dei fasti di Genova senza raccontare le stupefacenti immagini sepolcrali del Cimitero di Staglieno è un peccato. L’argomento richiede una trattazione a parte. Nella prossima puntata.
Pensiero malaccorto
Quel che segue non è farina del mio sacco. L’ho letto sopra una rivista che ha per titolo Vanity Fair. Leggetelo pure voi. Titolo: “Deriva della violenza verbale”. Tra i campioni di tale trasgressione al bon ton, insieme a Vincenzo De Luca e a Vittorio Sgarbi, ci ho trovato pure Stefano Bandecchi. Viene presentato così: “Un gigante, ex paracadutista che, nel tempo libero fa il Sindaco di Terni, usando i gomiti e i pugni”. Io mi permetto di aggiungere, voluto dal popolo. La nota prosegue: “Mentre, in quello professionale, onora la sua poltrona al Consiglio Comunale, paragonandosi all’uomo normale che guarda il culo di una bella donna e, se ci riesce, se la tromba pure”. Chiedo scusa per il linguaggio grossolano, ma l’ho copiato papale, papale, dalla suddetta rivista.
Violenza verbale da qualche tempo in qua e violenza fisica nei giorni scorsi. Sempre becero sopruso è. L’ora del manganello facile si è rivista a Pisa, nei confronti di studenti che manifestavano pacificamente. Il Capo dello Stato ha detto: “I manganelli sono un fallimento”. Evidentemente dell’autoritarismo di destra. Qualcuno ha suggerito la necessità di tornare a bordo della democrazia.
La conclusione della strampalata valutazione di Vanity Fair è questa: “Dicono i sismografi sociali che la rincorsa alla violenza verbale è figlia del vuoto che ai ragionamenti della politica preferisce i muscoli della invettiva. Chi scandalizza sarà illuminato dai piani alti e bassi della comunicazione. Prendere a calci i problemi, senza sognarsi di risolverli”. Si tratta di una censura pesante dalla quale è doveroso prendere le distanze, per rispetto dell’Istituzione. Comunque, ambasciator non porta pena.