Di Adriano Marinensi – La 2^ guerra mondiale è finita da poco. Ci sono, sparse in ogni angolo d’Italia, le macerie materiali e le ferite morali provocate dallo sconvolgente conflitto. Gli italiani, per cinque anni, si sono quasi abituati a convivere con la brutalità e i lutti. Ma, ora il desiderio è quello di ricominciare a vivere senza paure e senza violenza. Perciò, Milano rimase attonita di fronte ad un fatto di cronaca nera che sapeva di ferocia.
E’ il 30 novembre 1946, verso le 8 del mattino, la commessa di un negozio di tessuti, si reca a casa del suo principale, che è fuori città, per ritirare le chiavi ed aprire bottega. Trova la porta socchiusa. Entra. In fondo al corridoio d’ingresso, vede a terra una persona vestita come se fosse in procinto d’uscire. Si tratta della padrona di casa, Franca Pappalardo, moglie del commerciante Giuseppe Ricciardi, un siciliano dai modi robusti che si è ben sistemato al nord. Forse un malore. Macché, è immersa nel suo sangue. In altre stanze si trovano i tre figli. Antoniuccio ha 10 mesi, sta sopra il seggiolone, la testa rotta e reclinata da un lato. Altrove ci sono – morti anche loro – Giovannino di 7 anni e Giuseppina di 5. I giornali titolano: “Massacrati in Via S. Gregorio, a Milano, una madre e tre figlioletti”.
Va dunque cercato un orco al maschile oppure una belva al femminile. Collaboratrice nel negozio del Ricciardi è stata, per qualche tempo, una giovane friulana, Caterina Fort, detta Rina, poco più che trentenne. Il rapporto di lavoro, come spesso accade, ha fatto un passo avanti: Rina è diventata l’amante di Giuseppe. Non è affatto raro che da una tresca amorosa, scaturisca un delitto. Quindi Rina diventa una sospettata di lusso per gli inquirenti. Ha avuto dei trascorsi segnati dalla sfortuna. A 12 anni, si è salvata per miracolo dall’incendio della sua casa; un fidanzato, in giovanissima età, le è morto di TBC e il padre in un incidente, mentre con lui stava in montagna. Si sposa con un paesano che finisce presto in manicomio. Allora si trasferisce a Milano.
Viene sottoposta ad un lungo interrogatorio. L’indagata, prima si dichiara all’oscuro dei fatti che le vengono contestati; poi dice: “Si, ho ucciso io la donna, ma non i figli”. Però, l’accusa con la quale finisce a S.Vittore è omicidio volontario e infanticidio plurimo. Dino Buzzati, sul Corriere scrive: “L’altra sera, noi eravamo a tavola, quando, poche case più in là, una donna ancora giovane massacrava, con una spranga di ferro, la rivale in amore e i tre figli. Non si udì un grido, come nulla fosse accaduto. Poi le luci si spensero e rimase accesa solo quella di una finestra dove tutto era immobile. Gli abitanti orrendamente fermi, pure il più piccolo, la testa reclinata come per un sonno improvviso. Poi, il pensiero orribile di quanto era successo si è sparso per la città. Ed è passato un brivido di orrore e di paura”.
Rina Fort tenta di giustificare l’uccisione di Franca Pappalardo con un raptus di follia quando la rivale l’ha apostrofata così: “Cara signora, lei si deve mettere l’animo in pace e non portarmi via mio marito. La cosa deve finire perché io sono buona e cara, ma se lei mi fa girare la testa, finirò per rimandarla al suo paese”. Di qui l’ira funesta che – stando alla confessione – le ha armato la mano assassina. Però, soltanto sulla donna. Prima del processo, Rina trascorre un paio di anni in carcere e la stampa scrive: “Quasi sempre sola, piangendo e, qualche volta, ruggendo, il volto sfatto e gli occhi come due piaghe, arsi dalla febbre della sua malvagità”.
Al processo, in Assise, a Milano, che inizia a gennaio del 1950, si presenta in un diverso sembiante. Ancora Dino Buzzati: “Appare come una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell’angolo più buio della Chiesa”. Però aggiunge: “Non si può dire sia brutta … anche se mostra una certa bellezza soda e popolana”. Per lei i presupposti del giudizio non sono favorevoli, in quanto, sottoposta a perizia psichiatrica, è stata dichiarata “capace di intendere e di volere al momento del delitto”. Mentre, nel giudizio istruttorio, si sottolinea “la piena responsabilità degli atti ad essa ascritti e da sola compiuti, con una efferatezza sconcertante”.
Di nuovo, le cronache dell’epoca: “Sui gradini della grande entrata del Palazzo di Giustizia, sono assiepate circa tremila persone”; mentre nell’aula, “donne d’età, astiose e risolute, sembrano identiche a quelle che facevano la calza ai piedi della ghigliottina, nei giorni del Terrore francese”. Cinque ore dura la requisitoria dell’accusa che pone un punto fermo: “Lei sola, la sera del 29 novembre 1946, era di fronte alla moglie ed ai bambini del proprio amante, di fronte a coloro che costituivano per lei un ostacolo”. Perché, Rina, durante l’inchiesta aveva accusato tale Carmelo Zappulla di correità nel fatto delittuoso. Il Procuratore generale rileva anche “la responsabilità morale di Giovanni Ricciardi che – egli afferma – risulta evidente pur se non è apparsa quella materiale, necessaria per legge”.
Il dibattimento non dura molto perché poco c’è da discutere di fronte ad un crimine di tale portata. Per Rina Fort c’è l’ergastolo in quanto ritenuta responsabile di “omicidio continuato, commesso con crudeltà e sevizie”. Dall’aula, il pubblico applaude, con grida di approvazione, all’indirizzo dei Giudici: “Bene, bravi”. In Appello e in Cassazione la condanna è confermata. Nel 1975, dopo quasi 30 anni di prigione, Rina Fort ottiene la grazia per buona condotta. Muore d’infarto a 73 anni, nel 1988. A chi l’ha intervistata in carcere, ha sempre ripetuto: “No, i bambini non sono stata io”. L’avrà ribadito, chissà quante volte, pure a sé stessa, per convincere la propria coscienza e attenuare il rimorso, inevitabile e conseguente di fronte a tanta inumana empietà.