Di Adriano Marinensi – A cavallo dei mesi di febbraio e marzo, quasi 70 anni fa, sono accaduti due fatti che hanno profondamente segnato la storia dell’Europa. Il Continente stava assumendo una dimensione geografica e politica sulla falsariga di quella uscita dalla 2^ guerra mondiale. Ad est, s’era andato formando il blocco degli Stati posti sotto l’influenza dell’Unione sovietica. In alcuni Paesi occidentali, orientati verso gli USA e soprattutto in Italia, forti partiti comunisti facevano pesare la loro presenza. A dominare la situazione di questi partiti era la nomenclatura saldamente insediata al Cremlino. Più avanti, qualche tentativo di costruire vie nazionali al comunismo ci sarà, come la Primavera di Praga (1968) di Alexander Dubcek, autore di alcune riforme democratiche, cancellate dai carri armati del Patto di Varsavia.
A gettare nello sconforto il proletariato rosso piombò, il 5 marzo 1953, la notizia della morte improvvisa ed imprevista – dissero avvenuta a Mosca – di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, in arte, anzi in politica, Giuseppe Stalin, rivoluzionario, stratega militare, capo supremo e insindacabile dell’URSS. Una emorragia cerebrale lo uccise a 75 (o 73) anni e i suoi seguaci non la presero per niente bene. In Italia, vi furono dolorose manifestazioni di cordoglio di carattere istituzionale e popolare tra le file di sinistra, nelle piazze e nelle fabbriche. Sul giornale del P.C.I., l’Unità, comparve un vistoso segno di lutto e “Gloria eterna all’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell’umanità”. E altrove: “La luttuosa notizia della morte dell’amato Capo dei lavoratori ha trovato la prima eco dolorosa nei luoghi di lavoro di tutta l’Italia”.
Enormi manifesti affisse il PCI. Ci scrissero ch’era morto “colui che ha combattuto per spezzare le catene dello sfruttamento e dell’oppressione. A questa causa ha dedicato tutta la sua eroica esistenza, realizzando la speranza degli oppressi”. Eppure, una frangia blasfema ci fu: i comunisti jugoslavi si espressero in malo modo, dicendo che se n’era andato il traditore della Rivoluzione d’ottobre, tradimento realizzato “attraverso il sistema imperialistico istituito nell’URSS”. Ma si trattò di una voce fuori dal coro, ispirata da vecchi contrasti ideologici, provocati da Tito (Josip Broz), promotore del Movimento dei non allineati che aveva fatto arrabbiare il Cremlino.
Dunque, milioni di figli si dissero orfani di tanto padre, le bandiere politiche e sindacali vennero abbrunate. Fu insomma l’occasione per uno straordinario “giubileo laico” del personaggio e delle sue opere, in un clima di straordinaria esaltazione apologetica. Della serie: Morto Stalin, non se ne fa un altro, per significare l’impossibilità di trovare un successore al pari di lui. Era scomparso il leader maximo del marxismo mondiale che aveva governato, in maniera assoluta, il suo Paese, per quasi trent’anni, dal 1924. Capo del governo e capo del partito, ma anche il generalissimo dell’Armata rossa che aveva ricacciato dal suolo russo gli invasori di Hitler. Il terribile Adolf, il superuomo nazista che si era radicata in mente una visione messianica per se stesso, lui, Stalin, lo aveva sconfitto.
Tutto questo tripudio di osanna e di vessilli a mezz’asta ricevette un colpo letale appena tre anni dopo. Al vertice del potere sovietico c’è Nikita Kruscev, 62 anni, successore di Stalin dopo il breve interregno di Laurenti Berija. Il XX Congresso del PCUS si è appena concluso. In una grande sala riservata ad un uditorio ristretto – è il 25 febbraio 1956 – Kruscev torna al microfono con in mano un corposo dossier. Inizia a parlare delle distorsioni causate dal culto della personalità. Il soggetto della sua arringa è il compagno Stalin. Il “rapporto segreto” diventa una imputazione durissima dello stalinismo come forma di potere, realizzato con la violenza delle “purghe”, le repressioni, le deportazioni.
I presenti al Congresso conobbero così lo Stalin antisemita, persecutore degli ebrei, l’inventore dei gulag, simili ai campi di deportazione di Hitler; conobbero il collettivizzatore delle terre agricole e chi si opponeva finiva in Siberia oppure ai lavori forzati. Il “rapporto” descrisse i crimini di Stalin, il quale “non agiva con la persuasione, ma imponendo le sue idee ed esigendo una sottomissione assoluta”. Del dispotismo fecero le spese, pagando con la vita, decine di migliaia di dirigenti e compagni di partito. Insomma, di Stalin che, per effetto del culto della personalità, splendeva più del sole, venne fuori una immagine sconvolgente. Una sorta di Robespierre rosso. La vecchia guardia, ancora di stampo sovietico, non accettò quel J’accuse; la Cina di Mao Tse Tung definì il documento una pratica revisionista.
Il mondo comunista – quando, poco dopo, un giornale americano pubblicò il documento – cadde nella costernazione. Sconvolta anche la delegazione italiana, guidata da Palmiro Togliatti, presente al Congresso. Tornato in patria il “migliore” tacque su quanto aveva udito e, a giustificazione, affermò che il proletariato non era in condizioni per assorbire un colpo così violento. In una intervista successiva, Kruscev mise in discussione anche la data e il luogo della morte di Stalin. Rivelò di aver ricevuto, il 1° marzo, una telefonata che lo convocava immediatamente, insieme ad altri, in una dacia lontana da Mosca. Questa la sua testimonianza oculare: “Stalin, vestito con l’uniforme di Maresciallo, giaceva sul pavimento a faccia in su”.
Per quattro giorni la notizia della scomparsa del dittatore rimase nascosta nei meandri della burocrazia politica sovietica. Kruscev rimase, per i dirigenti del partito, un compagno scomodo e venne “deposto” nell’ottobre 1964. Morì all’improvviso, come Stalin, l’11 settembre 1971. E’ entrato nella memoria collettiva come l’ uomo che scomunicò e rimosse un mito, ch’era già consacrato nella storia del comunismo mondiale. Oggi, in Europa e nei Paesi dell’Est, si è disfatta l’ideologia insieme al sistema politico ed economico, testimoniando il fallimento del comunismo reale come organizzazione dello Stato e della società civile.