Di Adriano Marinensi – Il collega ed amico Mario Avagliano, valente giornalista e scrittore, in collaborazione con Marco Palmieri, ha arricchito la sua produzione letteraria con un libro di notevole interesse. S’intitola: “1948: gli italiani nell’anno della svolta”. Titolo appropriato per rievocare un “punto strategico” della storia nazionale del ‘900, quando – appena usciti da una dittatura – rischiammo di finire sotto il “protettorato” di un altro regime assoluto. Dunque, giusto 70 anni fa, la svolta.
Il bivio, presentato dalle elezioni del 18 aprile, era tra il modello comunista, realizzato in Unione sovietica da Giuseppe Stalin e la visione liberale dei Paesi occidentali. In Italia, si confrontarono, la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi e il Fronte popolare formato dal P.C.I. di Palmiro Togliatti e il P.S.I. di Pietro Nenni. Si scontrarono soprattutto due concezioni politiche e sociali inconciliabili e due forme di stato fondate su dottrine dissimili. Con la Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, a fare da sentinella e lo spirito del C.L.N. ormai esaurito.
Dopo la scelta tra Monarchia e Repubblica del 2 giugno 1946 (votanti 89,08% – vinse la Repubblica con il 54,27%) eccolo, per l’Italia, un altro “crocevia della storia”. Il 18 aprile, allora come oggi, il calendario fissava la festa di San Galdino. Niente a che vedere con il fra Galdino, raccoglitore di noci, inventato dal Manzoni. Invece, con Ambrogio e Carlo, Galdino fu Vescovo di Milano e, tutti e tre, venerati protettori della città. Nella ricorrenza, i meneghini portavano in solenne processione la “Ghirlanda” del Santo. Nel 1847, gli Asburgici invasori vietarono la festa, provocando per ritorsione, prima lo “sciopero del lotto”, poi lo “sciopero del fumo”, per far mancare risorse all’erario; infine, le “5 Giornate di Milano”. Quel San Galdino lì faceva paura all’austriaco, perché, durante la sua vita, s’era battuto in difesa delle libertà comunali contro la tirannide di Federico Barbarossa. Altri “principi fondamentali” erano in discussione il 18 di aprile del 1948 e forse San Galdino, essendo quel giorno a lui dedicato dal culto cristiano, si mosse di nuovo per tutelare gli italiani dai pericoli di un dominio simile a quello degli Asburgo e del Barbarossa.
Le gerarchie ecclesiastiche d’Oltretevere si schierarono apertamente dalla parte del pio De Gasperi, proclamato defensor civis della cristianità. Si attivarono persino le Parrocchie con una massiccia azione territoriale, anche per tacitare il monito “sinistro” che proclamava a gran voce: “Se non è quest’anno, sarà st’altr’anno, pure i preti lavoreranno”. I Comitati Civici di Luigi Gedda, “sponsorizzati” da Pio XII, si dettero un gran da fare, casa per casa. Uscivano loro ed entravano i diffusori dell’ ”Unità”. E la trovata di porre la faccia truculenta di Baffone Stalin sul verso dei volantini elettorali diffusi dai social comunisti con l’effige accattivante di G<ribaldi; quella idea, del ghigno staliniano qualche “indirizzo di voto” lo mise in circolo.
Le campagne elettorali, all’epoca, avevano per palcoscenico le piazze e gli ardori di stampo ideologico accentuavano i proclami, in un clima surreale, talvolta sopra le righe: il bastone senza la carota. Poi, la battaglia dei manifesti con i galoppini della D.C. che, di notte, strappavano i manifesti del Fronte e viceversa. Nei bar, le discussioni sportive erano sostituite dagli accesi confronti, tra guelfi e ghibellini moderni. La posta di quel voto era alta. Come nell’Apocalisse di S. Giovanni, parve che il diavolo stesse per essere liberato dalla prigione. Quindi, finirono le passioni e si passò ai risultati che dissero: Votanti (con il sistema del proporzionale puro) oltre il 92% degli aventi diritto. Alla Camera: 1) Democrazia Cristiana voti 12.740.000, 48,51%, seggi 395; 2) Fronte Popolare voti 8.136.000, 30,98%, seggi 183. Il “biancofiore” aveva guadagnato 18 punti in più del 1946, i partiti del Fronte 9 punti in meno. Al Senato, furono riproposte percentuali pressappoco uguali. Gli italiani avevano capito che la democrazia proletaria, sbandierata dalla coalizione di sinistra, somigliava ad una partita giocata con le carte truccate. Ed avevano voluto gettare una testa di ponte sul terreno delle garanzie ideali e del progresso nella libertà.
Rimaneva comunque l’esigenza politica di creare un argine di pensiero alle mire che venivano dall’oriente e imprigionarono, nella logica della sovranità limitata, i Paesi dell’Est. Forse per questo, De Gasperi abbandonò l’idea del Governo monocolore e, il 23 maggio, presentò alle Camere un Esecutivo con dentro i rappresentanti del P.R.I., del P.L.I. e del P.S.D.I. Quest’ultimo nato l’11 gennaio 1947 dalla scissione di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat e l’ala riformista s’erano staccati dal P.S.I., in disaccordo con la strategia di Pietro Nenni. Tra i Ministri del V° Gabinetto De Gasperi, troviamo personaggi storici: Vanoni, Pacciardi, Pella, Scelba, Sforza. Ed un “emergente” sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Il Parlamento aveva eletto (11 maggio) il primo Presidente della Repubblica. Per il seggio più alto venne scelto il liberale Luigi Einaudi, subentrato al Capo provvisorio dello Stato Enrico de Nicola. Con la formazione dei principali Organi costituzionali, la politica poteva dedicarsi attivamente alle opere di ricostruzione del Paese, anche se il confronto restava su livelli di notevole antagonismo.
Nel mese di luglio 1948, gli animi tornarono in forte agitazione per l’attentato a Palmiro Togliatti. Uno studente, Antonio Pallante, lo ferì in modo grave, a colpi di pistola. Ero un teen ager, quell’anno, quando mi entusiasmai alle vittorie di Gino Bartali al Tour de France. In tanti si entusiasmarono, perché lui fece una impresa da sport estremo. A metà delle 21 tappe, aveva accumulato un ritardo in classifica di 21 minuti dalla maglia gialla, ch’era indosso ad un francese terribile, Luison Bobet (terribile, in quanto, poi di Tour ne vincerà tre consecutivamente). La situazione parve irrecuperabile, tanto che alcuni giornalisti, nostri connazionali, tornarono a casa. Fu sui mitici colli alpini – Vars, Izoard, Galibier, Croix de Fer – che Gino costruì il suo trionfo. Da arcigno scalatore qual era, annullò l’enorme distacco e giunse a Parigi, vincitore della importante corsa ciclistica, con più di 20 minuti sul secondo.
La leggenda metropolitana (però pare che i fatti siano veri) racconta che Alcide De Gasperi – preoccupato per le conseguenze del ferimento di Togliatti – abbia telefonato a Bartali, chiedendogli, per amor di patria, di fare ogni sforzo possibile e conquistare il Tour. Si trattava di stemperare, con la “fregola” sportiva, il clima incandescente che fece temere addirittura la guerra civile. E fu così che il campione dei miei anni giovanili unì il suo contributo di libertà all’altro fondamentale, dato dagli elettori con il voto del 18 aprile 1948.